Nel paese dei Guelfi e Ghibellini, Francesco Piccolo si cimenta con la rivalità tra due grandi del cinema, Fellini e Visconti, e tra i loro acclamati capolavori, ‘Otto e mezzo’ e ‘Il Gattopardo’. E con ‘La bella confusione’, frutto riuscitissimo di una
lunga ricerca, racconta anche dell’Italia che stava in parte ai loro piedi e in parte, minacciosa, alle loro spalle
L’Italia è un paese che ha sempre amato le divisioni e le partite a due, dagli Orazi e i Curiazi ai Guelfi e i Ghibellini fino alle disfide letterarie di Goldoni ‘versus’ Gozzi e poi, scendendo per li rami, si arriva allo Smemorato di Collegno e alle divisioni per fans di Coppi e Bartali, Callas e Tebaldi, Milan e Inter. Francesco Piccolo, sceneggiatore di Moretti e Virzì, di Archibugi e Bellocchio, casertano, classe 1964, ne inserisce ora una postuma ma sempre eterna perché parla di opere vive come possono esserlo i capolavori dell’arte e in particolare del cinema che ci è sempre contemporaneo.
In un libro bello e coinvolgente che ci conquista mentre lo leggiamo, ogni pagina più della precedente e meno della seguente, La bella confusione (Einaudi, pagg. 296, €. 20), che era il titolo originario di 8 e mezzo ci parla di due grandi registi, Federico Fellini e Luchino Visconti e di due grandi film del ‘63, Otto e mezzo appunto e Il gattopardo, che li resero non solo onusti di gloria ed Oscar (almeno Fellini), ma anche protagonisti di una leggendaria rivalità che poi si placò nel tempo. Il volume è una miniera di aneddoti da non perdere né dimenticare. Il conte Luchino, tanto aristocratico da seguire con feste ironiche anche il festival di Sanremo, morì 70enne nel ’76, mentre il borghesissimo Federico, provinciale secondo le critiche del rivale (La dolce vita è un film fatto da un maggiordomo che ha sempre spiato la nobiltà dal buco della serratura”), ci lasciò orfani nel ’93 a 73 anni dopo lunga malattia. Entrambi ci parlano ancora, a voce alta, di faccende italiane ed altro e Fellini è stato sicuramente un profeta, in senso biblico e nei suoi film aveva previsto tutto il peggio (La dolce vita, E la nave va, Prova d’orchestra, La voce della luna). Il libro di Piccolo porta in copertina la conturbante Claudia Cardinale che ci guarda in faccia, in macchina, lisciandosi i capelli: il calcio d’inizio era che l’attrice, richiesta dai due autori, non volendo giustamente rinunciare ad alcuno dei due (e quando mi ricapita?) era costretta a passare da un set all’altro, da Cinecittà all’accaldata Sicilia del gran romanzo di Tomasi di Lampedusa rifiutato con una storica gaffe da Vittorini, oltre tutto ogni volta dovendo tingersi i capelli per far contenti i suoi Pigmalioni che più diversi di così non potevano essere.
I film poi andarono verso un pubblico che li accolse a braccia aperte: naturalmente Il gattopardo, che in origine doveva essere diretto da Ettore Giannini, partiva avvantaggiato, nonostante la lunghezza, per essere, con il Dottor Zivago, uno dei due best seller Feltrinelli di quegli anni (uscì nel novembre ’58) ed avendo la fama di essere il nostro Via col vento, mentre il film di Fellini, ai tempi difficilissimo per gli incastri temporali e mentali tra reale, memoria, illusione, nasceva dalla analisi junghiana con il professor Bernhard dopo il finimondo della Dolce vita ed era opera magnifica e complicata, nei secoli imitata, gli ultimi sono Salvatore e Moretti: comunque, 729 milioni di lire (di allora!) per Fellini e 2 miliardi e 228 milioni per l’erede viscontiano.
Partendo dalla Cardinale e dalla sua sfruttata chioma, ci si chiedeva: come fa Piccolo a costruire su questo un libro? Certo, infatti quella è la partenza di una osservazione lunga e acuta su due grandi personalità dell’arte e anche sull’Italia che stava in parte ai loro piedi e in parte alle spalle pronta a una mossa di karate. Piccolo giustamente racconta questa disfida artistica prendendola larga, dal ’54, l’anno in cui si sfidarono alla Mostra di Venezia La strada e Senso, due ritratti realisti in modi diversi, due storie d’amore, in modi diversi, due grandi storie di tradimenti e delusioni. Il risultato, poiché governavano i democristiani che non sopportavano Visconti (ricco, comunista, nobile, bravo, pure ‘frocio’…), fu che vinse il meno gettonato, Renato Castellani con un Romeo e Giulietta non memorabile. Da allora Federico e Luchino, ognuno con la sua corte intorno, cominciarono a detestarsi almeno nella leggenda, anche con quelle piccole miserie che si addicono ai grandi. Racconta Piccolo che Visconti raccomandava alla Cardinale, sul set onirico del rivale, di chiamarlo per errore Luchino al posto di Federico. Piccole grandezze. Ma in quel mitico ’63 (non sto ad elencare gli altri grandi titoli dell’anno perché non ci si crede), oltre alla Cardinale che era sempre sotto il casco, c’erano Lancaster che doveva dimostrare a Visconti di non essere solo un cowboy (è nota l’iniziale ritrosia del regista), c’era la Milo innamorata dell’amore e poi del film, c’era Mastroianni felice alter ego che Federico voleva più sottile, con gli occhi un pochino bistrati, c’erano gli attori teatrali di Visconti, Stoppa, la Morelli, e Romolo Valli, e c’erano le fanciulle in fiore proustiane, la Morlacchi e Ottavia Piccolo (e i fanciulli Giuliano Gemma e Terence Hill, ancora Mario Girotti). Ma intorno c’era l’Italia dal ’54 al ’63, dieci anni storici, a cominciare dal drammatico ’60 col governo Tambroni, le proteste, i morti sull’asfalto, la crisi e fu proprio l’anno in cui il cinema italiano fece faville e pose le basi con una serie di titoli che meritano (lo penso da sempre) un libro per indagare cosa mai fosse successo per radunare Antonioni, De Sica, Fellini, Visconti, Pietrangeli, Rossellini, Bolognini, Maselli, Lattuada, Lizzani, Pontecorvo, Vancini, Comencini, Zampa.
La disfida tra Fellini, con il suo harem, e Luchino, omosessuale senza la volgarità di fare outing, si ripete poi nel tempo, partendo addirittura dal ’52, quando il primo dirige Lo sceicco bianco e il secondo Bellissima, continuando con il ’57 (Le notti di Cabiria contro Le notti bianche), il famoso ’60 (La dolce vita che vince su Rocco) e poi finalmente Boccaccio 70 del ’62, in cui ciascuno dirigeva il suo episodio, da un lato un rivisitato e raffinato Maupassant e dall’altro Peppino de Filippo con l’Anitona formato gigante. E poi, dribblando il ’63, c’è il ’65 (Vaghe stelle dell’orsa contro Giulietta degli spiriti), il ’69 (Satyricon e La caduta degli dei), chiudendo con Ludwig e Roma (’72). Ma belle sono le glosse sociali e politiche, i capricci, i primi accenni di marketing (ed è subito Lucherini), le fatalità, i cast, i budget, gli scoop giornalistici della Cederna, le liti storiche (Flaiano e Fellini), gli storici collaboratori (Suso Cecchi D’Amico sempre con Luchino) in un romanzo i cui protagonisti si chiamano Mastroianni, Pasolini, Lancaster, ma anche Laurence Olivier.
Piccolo si è documentato tantissimo, appunti, lettere, interviste, conversazioni con Cardinale e Milo, filmati, diari, testimonianze e pettegolezzi, una ricerca infinita. Il massimo comun divisore è il grande Nino Rota, ‘fratello’ di Fellini, che scrisse le musiche per entrambi senza entrare mai nella ‘dispute’, l’unico che non ha pagato alcun prezzo, dice lo scrittore. Comunque i due film sono a Cannes (in giuria c’è Rondi, critico amico) dove Lucherini affitta un ghepardo da un circo per le foto di Claudia e il Gattopardo: sono due trionfi, Visconti vince la Palma, poi Federico vincerà l’Oscar, 7 nastri d’argento (contro tre) e il Festival di Mosca dove i comunisti si lasciano conquistare dalla crisi del borghese Guido che combatte contro i suoi ricordi. E tenete in mente l’alba livida, vi sarà utile. E’ il cinema.
In apertura i francobolli dedicati ai due grandi registi: quello di Fellini datato 2010, quello di Visconti 2006, nel centenario della nascita.