Centrale Fies, centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee situato all’interno di una centrale idroelettrica di inizio novecento in provincia di Trento, ha dedicato il weekend del 26 e 27 luglio a FEMINIST FUTURES, a cura di Barbara Boninsegna e Filippo Andreatta, con un programma di sperimentazione e diffusione di pratiche orizzontali e inclusive ispirate al pensiero del femminismo intersezionale con Adenike Oladosu, Aïsha Devi, Anne Lise Le Gac, Chiara Bersani, Crème Solaire, Erna Ómarsdóttir, Muna Mussie e Massimo Carozzi, No Plexus, Rifugio Amore, Sofia Jernberg, Zia Soares e Nina Ferrante. Impressioni e riflessioni.
Feminist Futures si è svolto nelle giornate del 26 e 27 luglio. Io ho partecipato solo a quella del 26, quindi la visione che ne riporto è inevitabilmente parziale. Eppure, penso sia possibile delineare una prospettiva sufficientemente accurata. Qui consegno le sensazioni e le emozioni provate durante quella giornata, sicuramente molto intensa. Il programma è stato molto fitto. In ordine ho assistito a Arus Femia di Zia Soares & Adenike Oladosu & Nina Ferrante; Deserters di Chiara Bersani; IBM1401 – A User’s Manual (in memoriam) di Erna Ómarsdóttir; De Sospiri di Sofia Jernberg.
Gli spazi di Centrale Fies si prestano ad accogliere linguaggi differenti, è un luogo in cui si può ritagliare uno spazio di pace e di lotta allo stesso tempo. Eppure, i quattro atti di questa giornata non hanno composto un’opera convincente. Molto è rimasto nell’ordine delle apparenze, è mancato un equilibrio fra le parti, avrei voluto riconoscere più livelli di narrazione. Nonostante l’evidente densità dei temi trattati, per la maggior parte del tempo non sono riuscita a scendere in profondità e, rimanendo in superficie, il mio sguardo è rimasto a tratti apatico e sommessamente disturbato. Per indagare meglio i motivi di questo discorso, mi sdraio idealmente su un tappeto, chiudo gli occhi e ripenso alle sensazioni provate il 26 luglio. Sono in un luogo sicuro e provo una serie di sensazioni che fanno ribollire il mio sangue, sensazioni positive e sensazioni negative, a prevalere: quelle negative. Mi dimeno sul tappeto, cercando di scorgere i perché. Il tappeto è stato, per me, simbolo di questa giornata, perché mi pare di avere iniziato lì a sentire l’impaccio.
Il tappeto è lo spazio fisico e simbolico della performance di Chiara Bersani. Un oggetto che riporta tracce di un passaggio e questo passaggio è determinato anche da noi astanti, che oltre a vedere la performance, la abitiamo. Ripercorrendo le linee del disegno del tappeto, rivedo i volti delle persone che mi circondavano quel giorno e i sorrisi sardonici e le risatine di Bersani, Annamaria Pes e Kelly Ardens (le performer che hanno in dialogo con l’artista); ma soprattutto ripercorro l’effetto della performance sui presenti che, in un momento in cui le performer hanno lasciato il tappeto per uscire di scena – per poi ritornare dopo un periodo di tempo percepito come 10 minuti circa – hanno preso possesso del tappeto, hanno iniziato a esplorarlo, toccarlo, impossessarsene. Per quanto all’apparenza questo possa essere un fattore positivo, in realtà a mio avviso è stato molto disturbante: mi chiedo ancora oggi se l’artista avesse previsto di suscitare queste reazioni. La percezione è stata più simile a quella dell’invasione di uno spazio, probabilmente perché il mio corpo in quel momento non è stato in grado di muoversi, perché turbato dal mondo in cui era stato inserito.
Ero convinta di poter creare un legame più intenso con quello che stava accadendo, eppure questo non è avvenuto. In particolare nel caso della performance “di mezzo”, quella di Erna Ómarsdóttir, che ha generato in me una sorta di forza repulsiva, nonostante il frastuono, la presenza di una fisicità portata allo stremo, ho sentito che la fatica del corpo e i gesti convulsi dell’artista mi erano lontani anni luce. Nonostante l’indagine sul rapporto tra essere umano e macchina emerga con forza e sia un discorso su cui è necessario ragionare, le modalità attivate hanno creato un’immobilità inaspettata.
L’unico momento di “distensione” (metafora non casuale) è stato durante la performance di Sofia Jernberg. Il suo canto, il suo suono, come una montagna russa portava in alto e poi faceva precipitare in profondità. Entrambe le vette, la più alta e la più bassa, permettevano di rintracciare tonalità del sentire altrimenti sopite. In quel momento il suono e il canto, hanno delineato spazi di un altrove a cui era possibile legarsi: in cui mi è stato possibile riconoscermi.
Tutto queste sensazioni hanno a che fare con un coinvolgimento di forze che di solito non vengono a galla facilmente, in questo riesco a individuare un aspetto efficace del programma di quella giornata. Eppure, la forza respingente che ho provato mi accompagna tutt’ora, a un mese di distanza. Di certo, quella giornata mi ha costretto a guardare meglio quello che mi circonda e contemporaneamente lo smottamento delle mie viscere, sono ancora in attesa che queste impressioni prendano forma, probabilmente avrò bisogno di ritornare in quei luoghi e capire cosa altro possono darmi.
In copertina: Chiara Bersani, photo credit Alessandro Sala/CESURA LAB, courtesy Centrale Fies