A 75 anni dalla comparsa della chitarra che ha accompagnato la nascita delle musica rock (e non solo) un libro ricco di aneddoti, dettagli tecnici e immagini ne racconta la storia. Telecaster, Stratocaster, Jazzmaster sono i nomi immaginifici dei modelli che hanno decretato il successo planetario di musicisti come David Gilmour, Ry Cooder, Bruce Springsteen, Jimi Hendrix, Jaco Pastorius
Un anniversario tondo per tre quarti e qualcosa quello della Fender, l’azienda statunitense di strumenti che ha cambiato la storia di molte musiche e in alcuni casi quella storia l’ha fatta. Rock in primo luogo, ma anche blues e fusion, country e pop e in misura minore il jazz (tra i pianisti che hanno fatto posto alla tastiera Fender Rhodes ci sono però Herbie Hancock al fianco del Miles Davis elettrico e il grande Bill Evans). Fender 75 anni si intitola un libro bello e ricco – di aneddoti, di dettagli tecnici che fanno la felicità degli appassionati e intimoriscono noi comuni lettori, di immagini. Lo ha scritto lo specialista Dave Hunter, lo pubblica in Italia la benemerita Atlante di Bologna (edizione a cura di Ludovico Ausiello, pagg. 226, 45 euro). Peccato che quel “75 anni” non sia già più tanto vero: il libro, nell’edizione americana, è del 2021 e gli anni sono diventati nel frattempo 76. Ben portati, con una nuova giovinezza nell’ultimo decennio, dopo gli acciacchi e i rovesci patiti nella mezza età. Ci arriveremo.
La storia comincia nel 1946 a Fullerton, California, dove un giovane non più di primissimo pelo, Leo Fender, figlio di coltivatori di agrumi (è nato nel 1909 e morirà nel 1991) e fresco di matrimonio, dopo aver fatto per qualche anno il contabile, mette in piedi un suo Fender Radio Service. Che ripara impianti di amplificazione e volendo li noleggia e li monta sul palco, vende radio e giradischi e all’occorrenza ripara pure quelli, fa incidere dischi in acetato (purché paghino, s’intende) ai dilettanti volenterosi che cinguettano per il piacere della morosa o della mamma. Qualcosa del genere farà, soltanto per i dischi, qualche anno dopo Sam Phillips a Memphis, Tennessee: scoprendo per puro caso, e cedendolo poco dopo alla major Rca perché non ha le spalle abbastanza robuste per gestirlo, un camionista poco più che ventenne che si chiama Elvis Aaron Presley.
Leo Fender invece sceglie un’altra strada: dal noleggiare amplificatori al costruirli (e i suoi diventeranno nel corso del tempo tra i più richiesti e affidabili non solo in America), dal costruire impianti a progettare e fabbricare strumenti musicali, perché facciano meglio risaltare la potenza dei suoi ampli. Un po’ come se uno decidesse di regalare al mondo un nuovo pianoforte per fare conoscere l’acustica di una sala concerti. È un punto di vista strambo, e d’altronde Leo Fender sa più di valvole e di meccanica che di musica, la chitarra proprio non la sa suonare e nelle band scolastiche ha preferito dedicarsi al sax, ma dopo un avvio lento funziona. E il suo Radio Service, che nel frattempo è diventato Fender Musical Instruments, parte con quattro dipendenti e nel 1965, quando l’ipocondriaco Leo si crede in punto di morte e cede la sua creatura alla Cbs per 13 milioni di dollari, ne avrà oltre cinquecento.
Da dove sceglie di cominciare? Dagli stessi musicisti ai quali vende o ripara gli altoparlanti: cantanti e gruppi country, ensemble di western swing, un genere spurio che riadatta lo swing jazzistico delle orchestre da ballo degli anni ’30 e ’40 a gruppi che usano soprattutto strumenti a corde e violini. La prima incursione di Leo Fender negli strumenti elettrificati avviene con la lapsteel, la chitarrina che emette i languidi suoni hawaiiani e si suona appoggiata alle ginocchia, e con la pedal steel, stesso strumento in versione mobiletto con tanto di gambe e, volendo, tastiera doppia o tripla. Adottano gli strumenti molti musicisti del circuito locale e southern, anche il chitarrista del grande Hank Williams. Il botto nazionale avviene verso la fine degli anni ’50 quando il duo Santo & Johnny, che andrà in classifica anche dalle nostre parti, si esibisce nel carezzevole hit mondiale Sleepwalk con una pedal steel che reca il marchio Fender in bella evidenza per il pubblico televisivo. Gli strumenti “hawaiiani” saranno sempre un prodotto di nicchia, ma vale la pena di ricordare che nel corso degli anni li useranno da virtuosi David Gilmour dei Pink Floyd e David Lindley compagno di avventure di Jackson Browne e Ry Cooder.
Intanto il rock è alle porte e nel 1950 la Fender fa il salto: la prima chitarra a corpo pieno industriale (in inglese e nel gergo tecnico si dice solid body per distinguerla dalla semiacustica hollow body, una normale chitarra elettrificata da uno spinotto collegato a un altoparlante), che elimina la cassa di risonanza. La svolta era nell’aria da almeno vent’anni, da quel 1931 in cui la Rickebacker propone la sua prima semiacustica. L’esigenza è nata sempre lì, nelle orchestre swing, dove la povera chitarra aveva una voce troppo flebile e finiva sommersa dall’iradiddio dei fiati. E allora via a cercare strade per elettrificare, finché Leo Fender, tenendo d’occhio le varie sperimentazioni, lancia una chitarra facile da assemblare e da produrre in serie, che costi quindi meno delle concorrenti, e più maneggevole, la pubblicità ci insisterà molto.
La chitarra si chiama all’inizio Esquire, poi Broadcaster (ma la concorrente Gibson inibisce l’uso del nome, che è già di un suo banjo), infine nel 1951 Telecaster, facendo l’occhiolino all’avanzata impetuosa della televisione. Le caratteristiche? A costo di annoiarvi, dettagliamo: due pick-up single coil controllati da un selettore a tre posizioni, potenziometri di volume e tono, corpo in legno massiccio in frassino (più tardi sceglieranno l’ontano), ponte fisso, manico in acero con tastiera in acero (nel 1962 sarà la volta del palissandro) avvitato al corpo. E un suono essenziale e brillante, all’inizio con poco sustain, poca risonanza, in seguito si metterà rimedio. C’è la Telecaster nel suono twangy degli anni ’50 (Duane Eddy, per chi ancora lo ricorda) e nel boom-chick-a-boom cadenzato di Johnny Cash. Nel rockabilly dei fratelli Burnette, nel rock nervoso e melodico della giovane rockstar Buddy Holly con la faccia occhialuta da Clark Kent che Beatles e Stones arriveranno a venerare. All’inizio, oltre al primo rock ‘n’roll, adottano la Telecaster i bluesmen elettrici di Chicago e dintorni, da Muddy Waters ad Albert King, la consacrazione avverrà negli anni ’60 con Keith Richards dei Rolling Stones che alla Telecaster è rimasto sempre fedele. Altri nomi? George Harrison al quale la regalò Eric Clapton che intanto gli aveva soffiato la moglie, l’epico Bruce Springsteen delle impetuose cavalcate con la E-Street Band, il “punk in opposition” Joe Strummer con i suoi Clash.
La Fender, negli anni ’50, è una new entry nel mondo delle chitarre, dominato allora dalla Gibson (Fender e Gibson come Coppi e Bartali: saranno gibsoniani Jimmy Page e Bob Marley, Slash dei Guns ‘n Roses e Neil Young, per tacere dei molti altri e degli altrettanti che alternano i due brand), dalla Gretsch, dalla Rickenbacker e dalla Epiphone, e all’inizio la Tele, alle fiere di settore, riceve sberleffi: sembra una pagaia, cos’è quella roba sgraziata tutta spigoli e manopole, dicono gli addetti al settore. Si dovranno ricredere. Intanto Leo Fender si è inventato dal nulla nel 1952 un nuovo strumento, il basso elettrico (c’era il contrabbasso, pesante come un armadio), ma il suo Precision Bass non attecchisce fra i jazzisti che preferiscono restare ancorati al suono acustico. In compenso, deflagrerà nel rock (uno dei suoi alfieri è oggi Flea dei Red Hot Chili Peppers, ma è accaduto di suonarlo anche a Bob Dylan), nel funk (Verdine White degli Earth Wind & Fire) e nella fusion (Marcus Miller, l’immenso Jaco Pastorius per qualche tempo nei Weather Report).
Ma Leo ha fretta, vuole sfornare una chitarra nuova mentre continua a migliorare e aggiornare la Tele (la ricerca continua sarà una sua ossessione, e renderà leggendario il marchio Fender, oltre ad alimentare il collezionismo con tutte le innumerevoli varianti delle sue chitarre), e così nel 1954 viene presentata al mondo la Stratocaster, Strato come la stratosfera degli imminenti viaggi spaziali, la chitarra più iconica e imitata della storia del rock assieme alla Gibson Les Paul. Che presenta un corpo con una doppia spalla mancante, sagomato in modo da essere più comodo ed ergonomico rispetto alla Telecaster, e una maggiore versatilità sonora grazie a tre pickup con un selettore a tre posizioni. Anche la paletta cambia forma e diventa più lunga. E il suono si fa infinitamente più ricco e duttile: con l’avvento dei pedali, dagli anni ’60 in poi, nessuna avventura, nessuna distorsione e nessuna manipolazione sonora diventeranno impossibili.
Chi adotta la Stratocaster? Si fa prima a dire chi non l’ha mai usata. Tutto il furore di Jimi Hendrix che intona l’inno americano a Woodstock farcendolo di scoppi, tuoni e suoni laceranti che rimandano alla guerra in Vietnam, tutte le sue acrobazie e i suoi giochi spericolati (a Monterey arriverà a incendiare la chitarra sul palco) sono riassunti dalla Strato. Così come tutte le cesellature blues di Clapton con la mitica “Blackie” (verrà venduta all’asta spuntando il prezzo record di 950mila dollari), gli arabeschi di Mark Knopfler dei Dire Straits, l’hard rock di Ritchie Blackmore dei Deep Purple, il blues torrido di Steve Ray Vaughan e quello tormentato di Buddy Guy, le sonorità piene e inconfondibili di David Gilmour e gli incredibili fuochi d’artificio di Prince (ascoltatelo in un tributo all star allo scomparso George Harrison mentre cesella While my guitar gently weeps, c’è da restare a bocca aperta).
Delle altre chitarre (ma la Fender intanto continua a produrre amplificatori sempre più sofisticati, tastiere e altri strumenti fino ai violini e alle armoniche a bocca, pedaliere e accessori) converrà accennare in breve. La Jazzmaster, progettata per ottenere un suono più morbido, verrà come al solito snobbata dai jazzisti ma si farà strada fra la new wave e l’indie rock (Elvis Costello, Tom Verlaine dei Television, i My Bloody Valentine, i Dinosaur Jr. di J Mascis). La Jaguar piacerà ai gruppi surf, Beach Boys in primis, e verrà rivalutata dal grunge (Kurt Cobain dei Nirvana) e ancora una volta dal rock indipendente (Johnny Marr degli Smiths e dei Modest Mouse).
Mentre la storia stessa della società, dopo la vendita alla Cbs nel 1965 (pessimo periodo, che fa perdere qualità agli strumenti e corrode la reputazione dell’azienda) si rimette in sesto dopo che la major discografico-televisiva decide di rivendere la Fender ai dipendenti nel 1985 (non c’è più Leo, ma il nucleo storico è rimasto). Si riparte riprendendo la ricerca, riparando gli errori di materiale e di progettazione del ventennio precedente, e soprattutto viene creato il Custom Shop, a metà strada fra la liuteria artigianale e il centro di ricerca. Da lì verranno e vengono tuttora i prodotti d’alta gamma: le chitarre “signature” personalizzate per le rockstar da Clapton a Gilmour e da loro sponsorizzate perché ne possano godere gli happy few disposti a spendere, quelle prodotte su richiesta di singoli clienti. Intanto, 76 anni dopo la fondazione il mito della Telecaster e della Stratocaster rimane intatto, e le vendite (la produzione giornaliera è di duemila chitarre) continuano in tutto il mondo. Buon non-compleanno, Fender.