Sperduto tra le alpi, il festival tirolese del padre-padrone nonché direttore d’orchestra Gustav Khun ripropone come tutti gli anni pagine memorabili dell’operistica wagneriana. Il Walhalla declinato tra mucche e cavalli al pascolo e vette innevate. Non è Bayreuth ma…
Il Festival del Tirolo come una mini-Bayreuth nella sperduta Erl, capitanata dal direttore d’orchestra Gustav Kuhn per quattro giorni wagneriani tra Nibelunghi e tirolesi in ugual misura.
Primo giorno
Destinazione Erl, Austria, 1500 abitanti scarsi. Qui ogni estate, a far compagnia a mucche e polli, si presenta niente meno che Richard Wagner. Un Ring in quattro giorni, più condensato che a Bayreuth dove dura una settimana, ma soprattutto meno caro. Questo è il Festival del Tirolo: non ci resta che partire. Diretti in macchina verso il Brennero, a spezzare le cinque ore c’è anche la gioia di una sosta futurista al MART di Rovereto, un MoMA all’italiana sperduto tra le Alpi.
Superata Innsbruck, arriviamo nella terra di mezzo tra Austria e Germania, che non credevamo esistesse al di fuori delle pagine di Dürrenmatt o Bernhard: distese di prati perfetti, gerani a ogni finestra e bar chiusi all’ora di pranzo. All’improvviso spunta il Passionspielhaus, bianca cattedrale tra le stalle, affiancato dall’avveniristico Festspielhaus, che sembra uscito da Star Wars. L’imperatore qui si chiama Gustav Kuhn, direttore, regista e filosofo, talvolta anche tecnico delle luci: suo è il regno, suo il festival. Il seguito è tale che qualche anno fa ha riempito il teatro perfino per un Ring monstre in ventiquattr’ore: durate più che ronconiane.
Si parte col Rheingold: abbassati al Mi i contrabbassi, l’orchestra dà inizio al mondo, wagneriano e non solo. Il Walhalla nell’immaginario di Kuhn è un centro sportivo polifunzionale, gli dei sono atleti e golfisti con mogli al seguito. Il Nibelheim invece lo fanno i bimbi di Erl, disposti ai lati della sala a battere il ritmo con incudini e martelli. L’opera è la più breve, ma forse la più ardua delle quattro: inizio in salita per Kuhn e per l’orchestra, che pasticcia quasi fino in fondo. Ma lo sconforto si placa subito: per recuperare hanno ancora venti ore di musica.
Secondo giorno
Cielo plumbeo e meno di quindici gradi. Questo è il luglio di Erl, che ci tiene lontani da bravi italiani dalle affollatissime attività locali di trekking, running, climbing. Ma siamo qui per il Ring e oggi c’è Die Walküre, la più dolce tra le quattro opere e anche la più famosa, se non altro per la straconosciuta cavalcata.
Kuhn e l’orchestra sono cambiati rispetto al Rheingold. Sin dalle prime note della tempesta iniziale il suono è compatto e scorre senza freni: non c’è traccia dei timori del prologo. Violoncelli e contrabbassi rimandano all’ostinato scrosciare della pioggia, il tremolo di viole e violini allo sferzare del vento. È la Natura che si agita e freme. Sul palco si susseguono i personaggi, in un dipanarsi di episodi che immergono il pubblico nella trama del Ring. Nell’ultimo atto compaiono le Valchirie, tutte in bicicletta, per continuare l’idea di un Walhalla sportivo. Ma le vere Valchirie ci hanno accolti in effetti all’intervallo, con nove cavalli sellati in fila nel prato accanto al foyer: solo in Tirolo poteva accadere.
Pronti per la scena finale, l’orchestra e i cantanti si infiammano. La figlia disubbidiente compie la volontà del padre, il quale, incapace di ammetterlo, è costretto a punirla: Wotan e Brünnhilde si vogliono bene, disperatamente, ma è chiaro che non possono più intendersi. Così sulla ninna nanna del tema del sonno, la Valchiria si addormenta e la musica si spegne lasciandoci inermi, con il cuore traboccante di dolcezza e speranze: si perde lo spazio, si dimentica il tempo.
Terzo giorno
Il gusto di svegliarsi con Brünnhilde addormentata tra le fiamme, che aspetta solo noi per salutare sole, luce e giorno. E il suo Siegfried. È a lui che va il titolo della serata, giovane heldentenor pericolosamente ariano, circondato da nani, viandanti e draghi. Curiosa tappa un po’ kitsch della tetralogia, in Siegfried si intravvede perfino un sense of humour wagneriano. Tra il rapporto con il baby sitter Nibelungo Mime, le chiacchiere con gli animali del bosco e il drago Fafner a un passo dall’ucci ucci di Pollicino, i registi rischiano davvero di scatenarsi. E Kuhn non si tira indietro: circonda Siegfried con i suoi animali-origami intagliati nel legno e gli mette in mano un Teddy Bear anni ottanta.
Ma il suo tono ludico trascura gli aspetti più inquietanti dell’opera, quel motivo del crepuscolo che regolarmente ritorna come monito. La clessidra non si è fermata: Siegfried è cresciuto ignaro ma scalpita per inseguire un nuovo destino; gli dei sempre più nevrotici vagano per la terra senza sosta; l’ora del vero sentire è alle spalle, e a noi non resta che attendere. Altro che happy ending: se c’è un idillio tra Siegfried e Brünnhilde è solo una quiete temporanea prima della tempesta. Niente di disneyano.
Spettacolo birichino ma direzione più matura: anche se non inebria un granché, l’orchestra incalza il pubblico. Dal preludio cavernoso alla vulcanica forgiatura della spada, Kuhn solfeggia di meno e cerca altre tensioni, nuovi colori, senza arrivare alla fantasmagoria ma con quell’intenzione.
Quarto giorno
Intenzione che scompare per l’ultima giornata, quella decisiva, in cui tutto finisce e tutto ricomincia. È proprio nella Götterdämmerung che possono venire fuori le debolezze, specialmente quando il cast è sbagliato: male George Humphrey, male Mona Somm, indifendibili Siegfried e Brünnhilde. Cadute degli dei, ma non solo. La regia di Kuhn sfiora il ridicolo con un coro di segretarie con borsette sincronizzate, bambini che sbucano in continuazione – perfino nel finale – e il povero Alberich appeso a una fune per venti minuti buoni.
Regia per molti aspetti da dimenticare con l’aggravante dei costumi di Lenka Radecky, ma una nuova produzione è attesa per il 2020. Eppure il Ring di Erl è un’esperienza che vale la pena fare, per la simpatica atmosfera tirolese, le montagne verdi intorno al teatro e i tanti pantaloni del pubblico in pelle rossa. Oltre a un’orchestra in buone condizioni, sempre a vista dietro la scena come un Walhalla musicale, sono emersi alcuni cantanti di valore: l’Alberich del basso Thomas Gazheli, il gigante Andrea Silvestrelli, la Fricka di Hermine Haselböck, la Erda di Alena Sautier. Brünnhildi diverse ogni sera, ma da menzionare solo Nancy Weissbach nel lirico finale di Siegfried.
Se già dopo il Ring alla Scala del 2013 ne avevamo il sospetto, dopo quattro giorni a Erl è arrivata la conferma: il pubblico wagneriano sta in un mondo parallelo. Piccoli Wagner stampati sulle cravatte e smaccati tentativi di assomigliare ai mostruosi personaggi della saga. In più per un Ring si prendono voli dalla Finlandia o anche dal Giappone, per dimenticare per qualche giorno tutto ciò che non sia nibelungico. Pure noi siamo stati al gioco e, forse un po’ sazi di Wagner, ci aspettano altre cinque ore: non per un secondo Götterdämmerung, ma per un viaggio in macchina in cui ascolteremo anche altro.