I festival dell’estate schierano due lavori interessanti: Fabre dirige Bergamasco a Pompei in Resurrexit Cassandra su testo di Cappuccio, Lidi va di Strindberg con un interessante trio d’attor
Bandiera a scacchi e… start! I festival dell’estate partono e hanno inizio tutti insieme lungo l’intera penisola, i piccoli insieme ai più paludati, in provincia come nelle metropoli, a segnare che forse non solo il lungo inverno è alle nostre spalle ma che finalmente dopo tanti mesi di reclusione possiamo tornare a godere del teatro, della musica, della lirica… insieme ad altri spettatori dal vivo e non solo in forma bidimensionale chiusi entro il perimetro di uno schermo televisivo o di un monitor.
Il problema da affrontare diventa dunque che spettacoli scegliere tra le mille e mille sollecitazioni in contemporanea da ogni dove. Privilegiare il grande attore o il giovane regista, il gruppo emergente o la suggestione delle location turistiche?
Difficile non cedere all’inaugurazione del Pompeii Theatrum Mundi, quando ha annunciato un’interprete di talento come Sonia Bergamasco diretta da un regista che ama gli esperimenti estremi e le sfide sceniche come Jean Fabre, tantopiù che il testo del loro Resurrexit Cassandra è firmato da Ruggero Cappuccio, e lo spettacolo diventa così la cerniera di giuntura tra le due massime esperienze campane dell’estate (Resurrexit Cassandra è co-prodotto dal Teatro di Napoli–Teatro Nazionale, mentre Cappuccio è da anni il lodevole direttore del Napoli Teatro Festival che dall’edizione appena inaugurata ha cambiato titolazione in Campania Teatro Festival e si è esteso dal capoluogo a tutta la regione).
In qualche modo per il binomio Fabre-Cappuccio si tratta di una sorta di remake, in quanto il loro monologo era già andato in scena un anno fa al Teatro Bellini con l’attrice tedesca Stella Hoettler, ma adesso si ripropongono in una dimensione e una forma del tutto differente.
Ora in scena abbiamo un’infinita serie di riferimenti alla versione del mito secondo cui furono i serpenti a leccare le orecchie di Cassandra mentre era addormentata nel tempio di Apollo, sussurrandole insieme al dono della profezia la possibilità di vedere tutte le disgrazie del futuro, senza mai, mai esser creduta.
Maledizione a una dimensione, di un bianco uniforme che livella orizzontalmente palco e fondale, punteggiata da oscuri brandelli di ofidi che emergono minacciosi dal terreno. In tale non luogo fuori dal tempo e dallo spazio tornano a materializzarsi le membra sparse e la voce divinatoria della profetessa troiana per parlare a noi esseri umani del nuovo millennio anticipata dalle parole appena roche e sgranate dello stesso Cappuccio in registrazione off che ne motivano la presenza.
Durante il prologo Sonia Bergamasco è già in scena, immobile e ieratica, totalmente padrona e dominatrice dello sconfinato spazio scenico fasciata in un lungo funebre abito nero. Tace ma il suo è un silenzio che si intreccia e dà potenza ai versi di Cappuccio, e quando inizia a parlare è puro incanto per i timpani degli astanti. Voce da contralto di velluto scuro, dalle tonalità quasi maschili, ipnotica e sensuale, va a incespicare volutamente talora in fonemi sibilanti così da costringere a una maggior attenzione (lo stesso espediente tornerà più volte nei momenti più inaspettati).
Ma è solo il primo degli infiniti miracoli sonori che la Bergamesco regala, sia quando recita sia quando propone song folk o rock, ogni sua battuta o singola intonazione è chiaramente progettata e interpretata come parte di un preciso spartito che va a integrarsi e dialogare anche con la partitura di Stef Kamil Carlens. Dalla mestizia alla furia. È qui evidente la sua lunga esperienza musicale che spazia dalle sperimentazioni con Carmelo Bene al palcoscenico della lirica, ma continua a stupire la precisione e il controllo assoluto delle sue intonazioni.
Del resto rimarranno indimenticabili anche le sue diafane braccia nude che con precisione geometrica fendono l’aria come elegantissime lame di carne. Acquistano così ulteriore spessore e veridicità le parole della sciamana, benedetta/maledetta profetessa di sciagure, ora riportata in vita direttamente dall’antico mito per tentare di scuoterci e farci consapevoli delle tristissime sorti che si prospettano per il nostro pianeta.
Lo spettacolo è articolato in cinque episodi, uno per ciascuno dei cinque elementi della natura – Nebbia, Vento, Fuoco e Fumo, Vapore, Pioggia – intesi anche come elementi primigeni dell’essenza umana, e per ognuno è previsto un abito di differente colore. Svestendosi del precedente e rivelando al di sotto quello nuovo, la protagonista muta dal nero del lutto, al rosso dell’invettiva battagliera, al verde dell’apertura speranzosa, al blu della pacata incertezza, fino al bianco della neutra fiducia che potrebbe essere anche il colore del lutto estremo.
Nel mentre si susseguono i versi del poema/monito Fabre ha ideato per il fondale una lunga sequenza intermittente di immagini di un’altra Cassandra, sempre Sonia Bergamasco, vestita dello stesso colore del capitolo recitato ma con un abito di differente foggia, e questa volta alla protagonista è richiesto di muoversi muta in una coreografia dalle libere movenze bauschiane.
L’attrice si ritrova così a dialogare non solo col pubblico ma anche con un’altra sé stessa alle sue spalle, di dimensioni estremamente dilatate, e per lei le difficoltà di tenere il controllo dell’insieme si moltiplicano in termini esponenziali. La Bergamasco non solo riesce a vincere la complessa sfida, ma diventa padrona assoluta dell’evento scenico, ben oltre il perturbante senso della drammaturgia e perfino oltre il disegno registico pensato su di lei e per lei. Si riconferma, casomai ne avesse avuto bisogno, come una delle grandissime interpreti del palcoscenico nazionale ed europeo, al pari e perfino superiore rispetto a molte celebrate star dello spettacolo francesi o britanniche e alla fine di una prova superba come questa ci si rammarica che il nostro cinema e la nostra tv le riservino principalmente ruoli popolari in cui può mettere in atto solo una minima parte delle sue magnifiche potenzialità.
C’è ancora la possibilità di ammirarla in Resurrexit Cassandra al Teatro Romano di Verona il 7 e l’8 settembre prossimi, appuntamento immancabile! E da novembre ci sarà modo di rivedere anche La signorina Giulia, lo spettacolo che ha inaugurato il cartellone della prosa al Festival di Spoleto proprio negli stessi giorni del lavoro campano di Cappuccio-Fabre (lo si diceva nelle prime righe, tutti i festival al debutto nelle stesse date!).
Il giovane e già riconosciuto attore-regista piacentino Leonardo Lidi (32 anni, premio della critica 2020, allestimenti alla Biennale di Venezia, nuovo docente di recitazione allo Stabile di Torino) ha affrontato il classico di Strindberg con un disegno preciso e originale, intervenendo anche sulla drammaturgia con tagli e spostamenti di scene assolutamente coerenti.
Ha fissato l’attenzione sulle dinamiche tra i tre personaggi fondamentali: la contessina Giulia, il domestico Gianni e la cuoca Cristina… e già dall’italianizzazione dei nomi si percepisce l’intenzione di distanziarsi dall’ambientazione naturalistica nordica del 1888. Eliminati tutti i riferimenti storicizzanti e gran parte di quelli relativi agli scontri o rivendicazioni tra differenti classi sociali, la messa in scena punta su quanto di più teatrale c’è nel testo originale a partire dalla battuta Ottimo Jean! Dovresti fare l’attore. Il gioco al massacro nella notte di San Giovanni, momento magico quando tutti i fantasmi – anche quelli più reconditi dell’animo – hanno diritto a emergere e manifestarsi, diventa così il centro dell’indagine sul palco, la ricerca di un impossibile equilibrio tra sentimenti e aspirazioni differenti da individuo a individuo.
Tutto essenziale, tutto fondamentale, in una sorta di gioco del tetris richiamato anche nell’assetto scenografico fatto di un ascisse e un’ordinata tagliate su uno sfondo nero, che rimanda nel contempo anche a una croce senza un braccio (simbolo dell’irrisolto conflitto/soluzione di fede proposto personaggio della cuoca).
Le tre figure che si confrontano e si scontrano sono chiuse in un frammento di labirinto senza uscite e lo spettatore diventa così l’entomologo che li osserva e li studia nel loro terrario. Grande importanza viene assegnata anche alla presenza dei sogni dei tre personaggi presenti nel dramma originale, tanto da anticipare proprio ad apertura dello spettacolo quello del domestico, facendolo seguire poco dopo da quello della contessina, segno preciso del rapporto inscindibile tra le azioni e i sentimenti anche più inespressi e repressi.
I tre attori restituiscono appieno l’essenzialità del disegno del regista e contribuiscono a delinearlo, a partire da Christian La Rosa, presente in scena già all’ingresso del pubblico, per arrivare a Ilaria Falini e Giuliana Vigogna che hanno trovato una mirabile forma di intesa recitativa per cui potrebbero tranquillamente scambiarsi i ruoli e le battute. Non si può non citare il disegno luci di Nicolas Bovey (anche scenografo) che con minime varianti riesce a sottolineare gli stati d’animo e i mutamenti psicologici dei personaggi.