Dal 20 al 23 giugno al Piccolo Teatro Strehler e al Teatro Studio Melato sessanta proiezioni di lungometraggi, documentari e corti, ma anche incontri e rassegne, per la 33 edizione del Festival del cinema queer e lgbt. Che quest’anno è dedicato, con il titolo di “Love Riot” ai cinquant’anni dalla rivolta newiorchese di Stonewall. Premi a Natalia Aspesi, Giuliana De Sio e Nina Zilli, dodici film in concorso (sei in anteprima italiana) e dal Tribeca Festival l’attesissimo “XY Chelsea”
Giovani e belle, interessanti e tormentate, appassionate e trasgressive, ribelli e di successo. Sono certamente le donne, le registe, i personaggi femminili e molte attrici che le interpretano le vere protagoniste di questa edizione, la n. 33, del Festival MIX Milano, intitolato quest’anno Love Riot per ricordare i 50 anni dalla storica rivolta di Stonewall, che dal 28 giugno 1969 e per qualche giorno e notte portò a fronteggiarsi a New York la polizia e il nascente movimento omosessuale. Al Village (dove i cops fecero irruzione nel bar frequentato dalla comunità gay, lo Stonewall Inn appunto), ma non solo. Per questo, da allora il 28 giugno è la “giornata mondiale dell’orgoglio LGBT”.
Dal 20 al 23 giugno al Piccolo Teatro Strehler e al Teatro Studio Melato sono in programma ben 60 proiezioni tra lungometraggi, documentari e corti, con un omaggio al cinema canadese e un focus con Letizia Battaglia e Nando Dalla Chiesa che presentano Shooting the mafia dell’inglese Kim Longinotto, e con l’anteprima italiana di XY Chelsea di Tim Travers Hawkins (presentato al Tribeca Festival), sulla vita di Chelsea Manning, nata maschio (Bradley) e diventata la talpa di Wikileaks nelle forze armate americane, con rivelazione di gravi segreti del Pentagono. Molti i premi, non solo ai film ma anche a personalità come la giornalista/scrittrice Natalia Aspesi (a lei va il “More Love” award), l’attrice Giuliana De Sio (Queen of Comedy), la cantante/musicista Nina Zilli (Queen of Music). Per i film del concorso (dodici, di cui sei in anteprima italiana) e i documentari, sceglierà una Giuria internazionale presieduta dalla scrittrice Michela Murgia e quella di Cultweek, al secondo anno di partnership del Festival, che assegna il suo award. E varie reti tv, da Cielo a Sky a laF, accoglieranno nella loro programmazione titoli della rassegna.
Tra i titoli fuori concorso, anche per l’uscita nelle sale italiane va innanzitutto segnalato Shelter: addio all’Eden di Enrico Masi, racconto in prima persona della vita di Pepsi, militante transessuale nata nelle Filippine, da giovane guerrigliera in un movimento armato islamista e poi perennemente in fuga, e non solo dal suo paese d’origine, per le scelte sessuali: dalla Libia dell’ultimo Gheddafi all’Italia dei centri d’accoglienza e del confine di Ventimiglia, fino alla Francia della giungla di Calais. Indomabile combattente (una ninija si definisce lei nel film) a difesa della libertà delle sue scelte identitarie e sessuali, e al tempo stesso della sua sopravvivenza, come quella di tanti altre e altri migranti, tra lavori precari da badante e infermiera, in un mondo che non garantisce con la stessa civiltà, come per esempio in Francia, asilo umanitario e sussidi.
Altro appuntamento importante del Festival (tutte le informazioni e il calendario si può consultare su www.festivalmixmilano.com) è l’omaggio alla pioniera del cinema queer Barbara Hammer, di cui si rivedrà il primo lungometraggio Nitrate Kisses, del 1992.
Tornando alla selezione dei lungometraggi, balza agli occhi la presenza di ben tre film reduci dal Festival di Cannes (2018). Dalla selezione ufficiale viene innanzitutto Plaire, aimer et courir vite (Sorry Angel) del blasonato regista francese Christophe Honoré, autore di Love Songs (Cannes 2007) e Metamorphoses (Venice Days 2014), per la quinta volta sulla Croisette: è ambientato nella Parigi del 1993, drammaticamente attraversata dall’Aids condiviso dal protagonista Jacques, scrittore sulla soglia dei quarant’anni con figlio piccolo, e dall’ex compagno Mathieu. Arthur, giovane studente ambizioso che sogna di fare il regista e sta scoprendo la sua sessualità, inizia una relazione con Jacques all’insegna di una confusione sentimentale che mescola ironia e malinconia, ambizioni e disillusioni, utopie adolescenziali e più maturo cinismo. Sul mix tra creatività, ansia e relazioni punta anche Benjamin, commedia agrodolce di grande successo in Inghilterra, che segna il debutto in regia del comico e conduttore tv inglese 39enne Simon Amstell, impegnato a mettere in ridicolo la nostra società dominata da Internet. Il protagonista del titolo, promettente regista, porta a termine faticosamente la sua opera seconda, No Self, lottando con la propria insicurezza di riuscire a regalare al pubblico un film all’altezza delle aspettative. Il film nel film racconta la sua incapacità di amare, ma nella realtà viene attratto da Noah, studente e musicista francese in visita a Londra. Anche in questo rapporto Benjamin è però bloccato da una certa immaturità, dall’orgoglio e dal doloroso ricordo di una precedente storia.
Gli altri due titoli in concorso che arrivano da Cannes sono forse le più significative espressioni di mondi femminili altri ed esuberanti nella loro volontà di esprimersi sessualmente e liberarsi di consuetudini e costrizioni antiche, e soprattutto di tipologie femminili chiuse in un ambito domestico, limitanti e oppressive. Rafiki di Wanuri Kahiu, passato a “Un certain regard”, ribalta lo stereotipo delle “brave ragazze kenyane che diventano brave mogli kenyane”, perché Kena e Ziki, figlie di due uomini politici in lotta tra loro, desiderano qualcosa in più della loro vita di villaggio. E si desiderano. Ma andranno incontro alla feroce vendetta dei maschi e delle donne loro complici. La storia è tratta dal premiato racconto Jambula Tree della scrittrice ugandese Monica Arac de Nyeko che racconta di due rafiki: in swahili sta per amica, ma è anche spesso usato a indicare il partner in una coppia omosessuale. In patria il film è stato bandito dal Kenya Film Classification Board perché “contravviene alla cultura e alla legge della nazione a causa del suo chiaro intento di promuovere la cultura lesbica, contraria ai valori dominanti dei kenyani”. Coppia assai osteggiata è anche quella di Carmen Y Lola della 51enne regista di Bilbao Arantxa Echevarria, ambientato in una comunità integralista gitana della periferia di Madrid dove per le donne la regola è sposarsi e mettere al mondo molti figli. A 17 anni Carmen andrà in moglie a un giovinotto benvoluto dalla famiglia, e sono già in corso i preparativi e le feste che che preludono al matrimonio, le promesse fra i genitori, i banchetti al suono del flamenco: ma la cugina di lui, la 16enne Lola, che vive nello stesso rione e canta nel coro durante le funzioni religiose (ma intanto disegna grandi murales con lo spray) s’innamora di lei dopo aver visto in tv un bacio fra due donne. Carmen e Lola si incontrano al mercato, dove lavorano al banco di famiglia, e dopo un’iniziale diffidenza e rifiuto, fra loro l’amore si afferma. Con catastrofici effetti e reazioni delle famiglie, dalle quali sceglieranno di fuggire.
Su differenti, e forse meno diretti registri comunicativi giocano gli altri tre film che hanno al centro altrettante coppie femminili, variegate per collocazione geografica e temporale. Tell it to the bees della svedese Annabel Jankel, ambientato nella Scozia brutale e patriarcale del dopoguerra (1952), è tratto dal romanzo di Fiona Shaw che racconta gli eventi dal punto di vista del piccolo Charlie. Il quale ci informa che tutto ciò che vediamo è frutto del suo ricordo della madre Lydia, operaia troppo spesso tradita dal marito e in condizioni economiche difficili, che scoprì il risveglio sentimentale e sessuale tra le braccia del nuovo medico del paese, la dottoressa Jean Markham, che li aveva ospitati amorevolmente dopo lo sfratto da casa loro. La loro scelta, malevolmente commentata da un’ondata di pettegolezzi locali, porterà le due donne allo scontro frontale con l’ex marito e la sua famiglia. All’oggi, in un duro e competitivo ambiente di consulenti d’azienda, di tagliatori di teste e posti di lavoro altrui, ci porta l’austriaco The Ground Beneath My Feet di Marie Kreutzer, per farci conoscere la 30enne Lola, consulente di management di gran successo. Perennemente in viaggio tra le imprese che ha il compito di ristrutturare, tra sedute in palestra, cene lussuose con clienti arroganti e notti passate in stanze d’albergo, spesso con l’amorosa sua dirigente, ha un punto debole nella vita e nella sua carriera: una sorella maggiore, Conny, malata psichiatrica da tempo, che periodicamente tenta (o finge di tentare) il suicidio. Lola, pure in bilico sul bordo di un burn-out da ansia e stress di lavoro, finirà per capire che la vita privata conta, e che deve trovare un modo per stare vicina alla sorella. Il colombiano Eva + Candela di Ruth Caudeli, infine, è il ritratto di due donne forti e indipendenti: Eva è regista, Candela la protagonista del primo film di Eva. La loro è un’attrazione fatale, accresciuta dal comune desiderio di avere successo nel mondo del cinema, ma col tempo la relazione cambia, una piccola creatura da entrambe voluta finisce per mettersi di traverso tra loro, e l’innamoramento, la sensualità decadono inesorabilmente verso la tenerezza e l’abitudine. Crepuscolari, insufficienti.
Relazioni familiari complesse tra fratelli e sorelle portano sullo schermo due titoli interessanti, dagli estremi opposti del continente America: l’argentino Los Miembros De La Familia, opera seconda di Mateo Bendesky, reduce dall’ultima Berlinale, ci mette di fronte a Lucas e Gilda che alla soglia dei vent’anni devono fare i conti con la morte della madre in una casa silenziosa e abbandonata in riva al mare, testimone degli ultimi giorni di vita di lei. I ragazzi finiranno per affrontare lì anche le loro personali ossessioni, lui ancora incerto nella sua identità sessuale, lei segnata dall’utopia di una metamorfosi e da un fidanzato tanto onnipresente quanto inafferrabile. Mettere insieme questi pezzi di vita sarà difficile ma molto istruttivo per entrambi. Genèse del canadese Philippe Lesage, documentarista al debutto nella fiction, reduce dai Festival di Locarno e Rotterdam, alterna le vicende del brillante enfant prodige Guillaume, segretamente innamorato del suo migliore amico Nicolas, e della sorella Charlotte, incerta tra un fidanzato piuttosto noioso ma affidabile e un musicista donnaiolo e indeciso. Primi amori e storie adolescenziali in cerca di una verità che li difenda da una troppo rapida entrata nel mondo adulto, con tutti i suoi conformismi e gli obblighi di ubbidienza e fedeltà verso gli altri.
Gli altri titoli della rassegna oscillano tra il mondo parigino un po’ snob visto dal taiwanese Cheng-Chui Kuo in Clément, Alex et tous les Autres, che viene da un pièce teatrale messa in scena dallo stesso regista in cui il proprietario gay di un grande appartamento si mette alla ricerca, insieme all’amica lesbica Alex, di un nuovo coinquilino che deva avere un unico requisito, essere omosessuale, e la cupezza ossessiva, tra musica tecno a palla e sogni inquietanti al limite della fuga dalla ragione del 17enne studente Jakob in Nevrland del filmmaker e co-fondatore del Porn Film Festival di Vienna Gregor Schmidinger. Jacob è diviso tra l’università, il lavoro nel mattatoio del padre e la relazione con un artista ventiseienne, lui pure inquietante la sua parte, che però può forse regalargli l’accettazione di un rapporto fisico. E il superamento del lutto per la morte del nonno. Apre il festival la sera del 20 giugno il film che ha un l’impianto più classico di tutti, Greta, opera prima di Armando Praça, presente in sala a introdurre, malinconico ritratto di un anziano infermiere gay, Pedro, che si fa chiamare Greta Garbo, della sua migliore amica, la trans Daniela, malata, e del più giovane Jean, fuggito dall’ospedale e sospettato di omicidio che trova riparo (e amore) nella casa di Pedro. Alla base c’è una commedia degli anni ‘70, attualizzata in toni più drammatici.
A concludere il Festival MIX, domenica 23 alle 22 al Teatro Studio Melato, ci sarà Gay Chorus Deep South di David Charles, racconto del viaggio intrapreso nel 2016 dal San Francisco Gay Men’s Chorus nel profondo Sud americano per affrontare e capire la nuova onda omofobica svelata dalla vittoria elettorale di Trump. Ma anche per apprezzare il potere benefico della musica, la sua capacità di aprire un confronto più umano con tutti.
“Dicktatorship”, la docu-commedia anti-fallocratica
“Avere il pene significa essere incatenati ad un folle”. Corsi e ricorsi storici: lo diceva Sofocle più di 2.500 anni fa, riecheggia insistentemente anche oggi. Questa la tesi di Gustav Hofer e Luca Ragazzi, attori e ideatori di Dicktatorship-Fallo e Basta!, una docu-commedia a metà strada fra lo studio antropologico e gli sketches di Casa Vianello.
Il comfort di un risveglio come molti altri in casa Hofer-Ragazzi viene turbato da un’espressione di Luca che il compagno mal digerisce: la premier tedesca Angela Merkel è una donna con le palle. Perchè per lodare bisogna maschilizzare? L’ingenua esternazione di Luca è il casus belli di una divertente diatriba tra i due, che dal battibecco moglie-marito diventa in breve tempo un’indagine approfondita, alla ricerca delle origini di questa visione fallo-centrica, tanto radicata da essere divenuta modo di dire comunemente accettato.
Storie di ordinario sessismo: i due viaggiano in lungo e in largo per l’Italia e per l’Europa, per esser ricevuti al cospetto di studiosi e protagonisti della questione. Psicologi, antropologi, neurobiologi e linguisti, senza dimenticare veri esperti della materia come l’attore porno Rocco Siffredi, protagonisti di un’insoddisfatta rivoluzione linguistica come l’ex Presidente della Camera dei Deputati Laura Boldrini e volti della lotta femminista come Michela Murgia. Il ping pong delle interviste è condito dai succulenti amarcord delle esternazioni fallocentriche dei nostri politici: nella classifica della vergogna collettiva vince il celebre episodio in cui Silvio Berlusconi chiese a una dipendente di Green Power quante volte “venisse”, e la rassicurazione di Donald Trump sulle dimensioni della parte del suo corpo che gli sta probabilmente più a cuore.
Ma Ragazzi e Hofer portano avanti la loro indagine anche su un altro fronte, analizzando le parole di donne “maschiliste” che fin da piccole, per offendere un’amichetta, la definiscono una “troia”, a prescindere dalle ragioni della sua ipotetica colpevolezza. Per dirla alla Nanni Moretti, le parole sono importanti, qui in quanto manifestazione di una cultura invisibile che ha incatenato le donne a un ruolo che nemmeno sanno di avere. Nella ricerca delle cause di questa situazione i due improvvisati antropologi studiano filmati del Duce, delle sue passioni sportive, e le accostano alla costruzione mediatica del macho portata avanti con successo anche dai leader di governo d’oggi, a suon di filmati e fotografie con fucili e divise, panini o magliette dell’esercito.
Prima ancora di rifarsi al Ventennio, Hofer e Ragazzi percorrono strade e piazze intitolate a uno scrittore dalle posizioni alquanto discutibili come Alfredo Oriani, esplorano architetture e iconografie fallocentriche e ricordano l’oblio che ricopre invece Elena Lucrezia Cornaro, la prima donna del mondo a laurearsi, nel 1678 a Padova. Ma forse in questo contesto, in cui i due autori/attori ci invitano a ridere per non piangere, sarebbe necessario guardare con maggiore attenzione alle piccole lotte invisibili – più che alle manifestazioni di piazza alla “Non una di meno” – che ogni donna deve affrontare ogni giorno per stare a galla.
Dicktatorship – Fallo e basta!, documentario di e con Gustav Hofer e Luca Ragazzi