Il teatro ossigenato di Timi

In Teatro

Filippo Timi: star neo pop, idolo extra gender, rievoca a tinte pastello le tipologie femminili americane anni 50 tra Hitchcock e Sirk

Filippo, Filippo. Dal greco amante dei cavalli, è anche il nome dell’unico principe guascone e petulante della carrozzeria Disney (ci riferiamo a La bella addormentata), e ci fa pensare a qualcuno che, in una stanza insieme a tanti altri, non avrebbe problemi a farsi notare.

È una metafora debole, forse, se si pensa al teatro del perugino Filippo Timi. Un teatro strabordante, bulimico per vocazione e additivo per intenzioni; una declinazione scenica talmente roboante e anti-contenitiva da permettere al grande pubblico di defilarsi con distacco, ma che invece lo cattura – da anni – con repliche da tutto esaurito e incassi da capogiro.

Favola – C’era una volta una bambina. E dico c’era perché ora non c’è più, ideato e già messo in scena nel 2011, ritrova accoglienza nel teatro di cui Filippo Timi è primattore e nume semi-tutelare: il Franco Parenti, che lo ospita fino al 12 aprile, e poi ancora dal 5 al 17 maggio.

L’autore e interprete, tra gli altri, di Skianto e Don Giovanni (già originati con torrentizio successo nei locali di via Pier Lombardo e poi nei teatri di tutta Italia), ritorna con Favola a ritornare su alcune delle questioni che più caratterizzano la sua tracciabilità scenica: il ribaltarsi delle convenzioni, l’estraneità forzata e anti-culturale dell’altro, il crollo delle apparenze.

Timi forma la sua scena legandosi a dei riferimenti estetici precisi e ossigenati: il contesto storico su cui si muove la vicenda è quello degli USA negli anni Cinquanta, dove i suburbs dalle tinte pastello e le donne che vi “pascolano” all’interno, guidate dal maschio pensante ma non sempre acutissimo, possono essere immortalate sia sulla copertina di un magazine di grido che sugli schedari della polizia.

Lo spirito eccentrico, le derive grand-guignolesche e le atmosfere dissacranti che citano Almodóvar e le cortesie malinconiche di Douglas Sirk sposano perfettamente le visioni e l’immaginario di Timi, che scrive, dirige e interpreta uno spettacolo furbissimo eppur sentito, in grado di coinvolgere spettatori progressisti o reazionari, coltissimi o vergini alla scena che siano. È la dote più grande e coinvolgente del Timi-uomodiscena: il suo teatro – Favola incluso – non conosce élite, parla a chiunque, si fa detestare o adorare venerabilmente. Una sorta di culto in progresso non estraneo a un’idea (forse un po’ naïf e per molti ormai superata) di cultura popolare.

Vestite e confezionate negli abiti di Miu Miu, le due protagoniste dai tintinnanti last names Mrs. Emerald (Lucia Mascino, feticcio della gang d’istrioni guidata da Timi) e Mrs. Fairytale (Timi) incontrano la fantascienza e il genderismo, atmosfere à la Hitchcock e stupori sessuali, e ancora culture e trasformazioni che subiscono e con le quali si confrontano, alternando scoperte e turbamenti. E a tal proposito, senza svelare troppo, vale la pena recuperare La bocca del lupo, film documentario del 2010 di Pietro Marcello, cui Favola è dichiaratamente ispirato.

Una tensione motrice volutamente sgangherata, quella di Favola, che però non esclude nessuno. Non è mai troppo intelligente né appropriato, quando si fa critica, tirare in ballo lo spettatore. Se si parla di Timi, però, chiudere un occhio è una clausola quasi imprescindibile; e in tempi oscuri come i nostri, in cui spesso la forma scenica si plasma in maniera autoreferenziale e per pochi addetti ai lavori, interrogarsi sulle ragioni del successo trasversale di un teatro sessualissimo, sfrontato, pettegolo e gravido di molteplici immaginari (nonostante i recenti dubbi di Christian Raimo su Minimaetmoralia), è un atto praticamente dovuto.

Favola – C’era una volta una bambina. E dico c’era perché ora non c’è più, di e con Filippo Timi, e con Lucia Mascino e Luca Pignagnoli, al Teatro Franco Parenti

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