È qualcosa di nuovo e antico insieme il ritorno in scena di Filippo Timi, come sempre al Teatro Franco Parenti. Un cuore di vetro in inverno è l’epopea donchisciottesca di un cavaliere umbro che combatte contro draghi che sono più probabilmente mulini a vento, molto più pericolosi perché è chi li affronta a munirli di fauci…
Un uomo si affaccia dal sipario ancora chiuso, dubbioso. Ha la barba incolta, gesti incerti e un candido abito da sposa, completo di velo. Ma l’immagine di Filippo Timi come (forse) qualcuno se lo aspettava, comincia ad essere disattesa da subito. C’è, indubbiamente, il suo già sperimentato giocare coi generi, ma c’è anche qualcosa che comincia ad avvertirsi diverso, fin da quando imbraccia una chitarra e si trasforma in trovatore, facendo del perugino la sua personale lingua d’Oc, il linguaggio dei sentimenti profondi: «me spelo ogni carezza, ogni campana è un guaito de tristezza..ogni bacio sapora corrotto». È qualcosa di nuovo e antico insieme il ritorno in scena di Filippo Timi, come sempre al Teatro Franco Parenti.
Un cuore di vetro in inverno è l’epopea donchisciottesca di un cavaliere umbro che combatte contro draghi che sono più probabilmente mulini a vento, molto più pericolosi perché è chi li affronta a munirli di fauci. Ma è soprattutto la sfida di chi sceglie di farsi elegantemente beffe di un pubblico che da lui si aspetta il giullare. Lui, invece, offre una via crucis, un procedere di stazioni sofferenti in cui il riso c’è, ma inchioda alla consapevolezza che serva soltanto a nascondere quello che non si vuole vedere.
Quello che si ha paura di affrontare: gli abissi più profondi della propria anima. I luoghi dove si annidano l’angoscia, la gelosia, la vergogna, la paura del tempo che scivola dalle mani, l’apatia che cannibalizza lo slancio di vita. Una discesa negli inferi che nel ritornare a veder le stelle, nient’altro che punti di luce su un panno, non cerca una divinità in un altrove, ma eleva ad essa la più umana e dolente delle icone. E una luminosa Marina Rocco è la trasfigurazione perfetta, eterea e vivissima, della «sorellina minore» che Pier Paolo Pasolini intravedeva in Marilyn, una «bellissima bambina» che fa da specchio alla bambina per eccellenza, la Maria adolescente gravata da un peso insostenibile e dall’impulso di ribellarsi al compito di un figlio che non le apparterrà mai. Proprio in quell’impulso, nella forza dei sentimenti, in ciò che la rende umana, la bambina trova la forza di lottare contro gli angeli, facendo della fragilità la più potente delle armi.
In un testo che abbandona tutto il gusto dell’eccesso ridanciano per raggiungere vette poetiche e liriche persino sororendenti, l’impronta di Pasolini è però fortissima: nel dialetto, il solo strumento che sa rendere tutto musicale ed estremamente concreto insieme.
Nelle figure, dalla matronale prostituta di Elena Lietti, regina di cuori in cui – se non fosse per una calda cadenza romagnola – si scorgerebbe Mamma Roma (e La Sirenetta dello stesso Timi, da cui il personaggio conserva anche il caldo bar-motel e il filo dei panni che fa della corte una borgata), alla dolente grazia quasi femminea del menestrello triste di Andrea Soffiantini, che si fa carico della messa in crisi della pretesa di maschilità virile che proprio nelle chanson de geste ha trovato il loro seme, insieme allo scugnizzo Michele Capuano, che alla prima prova del palcoscenico consegna un’interpretazione poliedrica (passando dal Moonwalk a Gigi D’Alessio) che spinge ad augurargli un numero il più nutrito possibile di future occasioni.
C’è anche questo, in uno spettacolo che nella sua durata limitata (considerati i precedenti dell’attore umbro) assomma una messe enorme di spunti. Eppure, nonostante qualche concessione all’abituale sincretismo delle epoche storiche e delle idee, che soddisfa quasi ironicamente le attese di chi ha già etichettato l’attore umbro, la molteplicità di piani di lettura possibili cui Timi ha abituato il suo pubblico qui sembra ridursi, ed è un guadagno.
Questa volta l’accumulo non è sovrabbondanza, e nella sua densità la costruzione appare persino procedere per sottrazione, per non permettere di sfuggire, di velare o proteggere la propria intensa messa a nudo.
Si compie così il percorso iniziato con gli altri spettacoli: qui al dolore non c’è più allusione, riferimento. C’è la diretta, spietata esposizione di un corpo, di un’esistenza che si offre, spogliata di tutte le protezioni quasi come della sua stessa pelle, gettandosi in un volo senza rete, in una guerra che non può avere scampo, perché solo toccando il fondo dell’inferno è possibile risalire.
Questa volta, senza nascondersi, è l’uomo a tendere la mano, abbattendo la quarta parete per chiamare in causa il suo pubblico offrendo la più forte, la più straniante delle provocazioni: la verità. E adesso, come rispondi?
Attraverso la più estrema autenticità tutto può rendersi allegorico e Timi può dimostrare di possedere non soltanto una grande tecnica attoriale ma anche una dote che sempre più spesso manca sui palcoscenici; la capacità di maneggiare in modo mai casuale i riferimenti, e la limpida coscienza della struttura del pensiero che regge il suo lavoro e lo rende chiarissimo e strutturato, evidenziando anche un’accorta regia.
È col frutto probabilmente più compiuto e spietatamente sincero del suo lavoro teatrale che il cavalier Timi risorge dopo due anni d’assenza dalle scene, affidando allo spettatore l’attesa che dal buio, come muore, anche il giorno risorga, l’inverno sfumi e le schegge del «cuore di vetro rotto» che ciascuno custodisce si ricompongano, assieme alla consapevolezza, tuttavia, che anche la più dura delle battaglie, anche la luna, non è che «un piccolo passo per l’uomo».
Fotografie © Filippo Manzini