“Gamberetti per tutti” di Cédric Le Gallo e Maxime Govare narra l’impresa di un nuotatore omofobo messo per punizione a capo di un’improbabile squadra di pallanotisti gay, in “L’anno che verrà” di Grand Corps Malade e Mehid Idir la dirigente Samia vuole raddrizzare le sorti di una scuola media di banlieue cercando di capire i ragazzini esuberanti e indisciplinati, “Nel nome della terra” di Edouard Bergeon è un omaggio al padre e al duro lavoro dell’agricoltore, protagonista Guillaume Canet
Nella speranza di risollevarsi, tra fine estate e inizio autunno, con i film di Chris Nolan e Nanni Moretti, 007 e Mulan, l’industria del cinema archivia la più drammatica e anomala stagione del dopoguerra puntando sulle arene estive e cercando di riaprire le sale. E se, fino a dopo ferragosto, le novità in arrivo non saranno moltissime e di grande richiamo, trovano però spazio film più piccoli, di gradevole visione, veicoli di sentimenti e battaglie nobili, spesso centrati su tematiche civili e sociali interessanti. E’ il caso del trittico francese che approda al cinema dal 9 luglio grazie a Movies Inspired, insieme a Vulnerabili di Gilles Bourdos, di cui Chiara Parma ha già scritto su Cultweek il 12 marzo in occasione della sua prima fugace apparizione.
Una doppia regia, di Cédric Le Gallo che ci ha portato un forte spunto autobiografico, e di Maxime Giovare, sorregge il più ilare e provocatorio del tre, Gamberetti per tutti, storia di un inverosimile team di pallanotisti gay, dediti più al divertimento che all’allenamento, agli show coreografici che agli exploit agonistici. I quali finiscono per essere guidati, in seguito a una scelta punitiva della federazione sportiva francese, da un campione di nuoto in odore di declino, macchiatosi della colpa di aver pronunciato in tv la parola “checca”. Dovrà dunque espiare, riscattarsi; e quale miglior occasione che tentare di portare l’acquatica squadra francese in Croazia al Gay Games con qualche speranza di vittoria? Va da sè che il riluttante e diffidentissimo Matthias (Nicolas Gob) finirà per diventare il primo (a tratti anche l’unico) vero e convinto supporter delle potenzialità dei suoi ragazzi. E li porterebbe anche molto in alto se un evento drammatico non intervenisse a cambiare la storia, non solo sportiva, delle crevettes.
Le Gallo ha scritto e diretto le vicende della sua squadra di pallanuoto, e con Giovare tiene il film sempre sui toni della commedia, anche nel finale che è in stile quasi musical, in cui comunque esplode la gioia di vivere e la capacità di fare spettacolo dei giovanotti, prototipi di differenti strati sociali e classi di età: dal militante omo Joel (Roland Menou) alla trans Fred (Romain Brau), che non tutti amano dentro la squadra, dall’impiegato Cedrid (Michael Abiteboul), che ha marito, figli e sensi di colpa quando li abbandona per la squadra al giovane Vincent (Felix Martinez) ancora intento a esplorare la propria sessualità. E così via. Se nella prima parte del film si indulge francamente un po’ troppo sui vari stereotipi gay, sfiorando a tratti la parodia, man mano che il prima duro, poi tenero Matthias (e con lui gli spettatori) fanno conoscenza e amicizia coi personaggi, essi stessi crescono, risultano più a fuoco e credibili. Forse non tutti sono disegnati in modo raffinato, ma nel complesso per loro c’è sempre affetto e rispetto.
Gamberetti per tutti, di Cédric Le Gallo e Maxime Govare, con Nicolas Gob, Lenoir, Michaël Abiteboul, Baiot, Romain Lancry, Roland Menou, Geoffrey Couet, Romain Brau, Felix Martinez
Racconto collettivo nel soggetto non meno dei Gamberetti, e anche questo con quattro mani in cabina di regia, è il problematico L’anno che verrà, firmato da Mehdi Idir e da Grands Corps Malade, nome d’arte dietro cui si nasconde il quasi 43enne poeta e atleta Fabien Marsaud, giocatore di basket che un giorno ha avuto un grave incidente in piscina perdendo per molto tempo l’uso motorio delle gambe. Da allora si muove sempre con una stampella, cosa che ha raccontato, in coppia con Idir, in Patients (2017).
In questo loro secondo film c’è Samia (l’esuberante, cominicativa Zita Hanrot), giovane ispettrice scolastica di origine algerina che si trasferisce dall’Ardèche nel municipio di Saint-Denis, banlieue parigina affacciata sul mitico Stade De France, a un passo dalla direttrice che unisce la capitale agli aeroporti di Le Bourges e Charles De Gaulle, non lontano nemmeno da Disneyland Paris. Qui lavorerà in una scuola media considerata problematica, e potrà spesso visitare il compagno, finito in carcere.
Samia scopre molto presto i quotidiani conflitti con gli studenti, piuttosto riluttanti al profitto e alla disciplina, ma soprattutto la realtà che pesa sul quartiere, multietnico e attraversato da vari tipi di disagi familiari e sociali. Ma anche le singolari capacità e l’incredibile vitalità, l’umorismo degli allievi e delle ragazze, e anche della sua squadra di assistenti. Tra questi ci sono Moussa (Moussa Mansaly), il fusto del quartiere, e Dylan il burlone (Alban Ivanov), che nasconde qualche traffico non dichiarabile. Lei ci mette l’anima, crede più degli altri in quello che fa, si adatta e cerca il modo di canalizzare l’energia dei più irrequieti, primo fra tutti Yanis (Liam Pierron), adolescente vitale e intelligente di cui intuisce i pregi. E la cui storia complicata sente vicina in qualche modo alla sua. Lui invece sembra privo di ambizioni e obiettivi, e si nasconde dietro la sua insolenza per restare in sintonia coi coetanei, ma anche per sfiducia nelle proprie capacità, che Samia cercherà fino alla fine di far emergere, per salvarlo dal fallimento scolastico e in prospettiva della sua intera vita.
L’anno che verrà è un film che fa leva su ragazzi e ragazze abbastanza spontanei, forse perché privi di precedenti esperienze attoriali, in cui prevale la voglia di raccontare la prima adolescenza senza tanti preconcetti, come il tempo in cui si costruisce la propria identità e si vivono i primi amori. E a mettere ordine fra i “selvaggi” della scuola di banlieue non è il solito professore bianco progressista un po’ convinto della sua superiorità, ma “una di loro”, nelle origini e nella storia personale. Un po’ come in La scuola della violenza, lontanissimo (1967) precedente inglese, con Sidney Poitiers professore nero in un liceo di ragazzi difficili, così si diceva allora.
L’anno che verrà, di Mehdi Idir e Grands Corps Malade, con Zita Hanrot, Liam Pierron, Soufiane Guerrab, Moussa Mansaly, Alban Ivanov, Antoine Reinartz, Redouane Bougheraba
Un vero dramma, anche in questo caso dai forti agganci autobiografici, occupa il centro di Nel nome della terra, che Edouard Bergeron, giornalista, sceneggiatore e documentarista francese 37enne, al primo film di fiction quantunque fortemente ancorato alla realtà, ha dedicato al padre, interpretato con pathos drammatico da Guillaume Canet. E’ lui il protagonista Pierre, che a 25 anni torna dal Wyoming in Francia per ritrovare Claire (Vaerle Baetens) la sua fidanzata, e prendere dal padre recalcitrante le redini della fattoria di famiglia. Per molti anni le cose sembrano andare bene e la fattoria cresce, ma a lungo andare i debiti si accumulano e Pierre si sfinisce col lavoro e nel fronteggiare le difficoltà, sedotto e abbandonato dall’aumento degli affari e dalle nuove tecniche di coltivazione e allevamento. E nonostante l’amore della moglie e dei due figli (Anthony Bajon e Yona Kervern) poco a poco si smarrisce, sprofondando nei dubbi, nell’alcol, nella disperazione.
Saga familiare basata sulla storia del regista, il film ha uno sguardo curioso, tenero e partecipe sull’evoluzione del mondo agricolo negli ultimi quarant’anni. Ma non nasconde una sorta di impotenza di fronte alla disperazione di Pierre, che finisce quasi suicida, senza soldi e distrutto da un lavoro senza fine. Anche perché nella sua crisi svolge un ruolo spesso negativo il rapporto col padre Jacques (Rufus), spietato oppositore di ogni tipo di modernità che ritiene disonorevole e antieconomica, e soprattutto inflessibile critico dei gesti umani e professionali del figlio. Un’incapacità di dialogo che l’accompagnerà fino al funerale di Pierre: solo allora arrivando forse a comprendere quanto può far male non cercare di comprendere.
Nel nome della terra di Edouard Bergeon, con Guillaume Canet, Veerle Baetens, Anthony Bajon, Rufus, Samir Guesmi, Yona Kervern