Il cinema moderno, ma soprattutto quello thriller e horror, ha fatto delle magioni in cui abitiamo (da due mesi a tempo pieno), sontuose o modeste che siano, la location di vicende drammatiche, terrorizzanti, fantasy. O, “semplicemente”, violente. Ecco un excursus che spazia da Altman a Hitchcock, da Bong Joon-ho al filone gore giapponese, dagli storici noir di Siodmak o Allen ai già classici, più recenti film di Raimi e Hooper. Fino a “The Others” di Amenabar con l’algida Kidman
#IoRestoACasa è il nuovo mantra in tempi di quarantena. Un vero e proprio impegno solidale e morale, una promessa, un dovere, un patto con gli altri, la collettività, lo Stato tutto intero. Per il benessere di tutti quanti, senza bisogno di certificazione alcuna, con grande senso di responsabilità, IoRestoACasa. Sembra facile, e persino equo, anche se la metratura a disposizione non è certo uguale per tutti. Ma non importa! Ciò che conta è la possibilità di trascorrere un incredibile numero di ore (molte più del normale!) a vedere e rivedere film e telefilm. Un’autentica orgia di immagini in movimento, capace di scatenare veri e propri attacchi di bulimia, ma anche di regalare momenti di assoluta beatitudine.
Però, sempre più spesso, man mano che passano i giorni (e più acuta si fa la sensazione di condanna agli arresti domiciliari, senza colpa e senza appello), la gioia lascia il posto all’inquietudine. Soprattutto nel momento in cui ci rendiamo conto che tanti (forse troppi) film parlano di noi. O meglio, delle nostre case. Del nostro rapporto con le quattro mura che ci contengono, ci difendono, ci rassicurano, a volte ci soffocano, inevitabilmente ci rappresentano.
A questo proposito, viene subito in mente Gosford Park di Robert Altman, con quella perfetta rappresentazione a strati delle diverse classi, come una vera e propria torta sociale a più ripiani. Al piano di sopra, giustamente definito nobile, i padroni (una classe sociale composita eppure coesa, tra decadente aristocrazia e rampante borghesia); al piano di sotto, in un labirinto di scantinati umidi e cucine infernali, i domestici suddivisi in base a gerarchie rigide, a volte feroci. E poi c’è la soffitta, la schiera di stanzette anguste raggiungibili dopo aver salito infinite rampe di scale: il luogo del riposo, per i domestici. E in mezzo tanti gradini. Scale che salgono e scale che scendono. Gosford Park l’ha scritto Julian Fellowes, premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2002, che dispiegherà il suo talento anche nella serie tv Dowton Abbey: strepitosa, curatissima, recitata in modo sublime, sei stagioni per un totale di 52 episodi che ma riescono a annoiare.
L’alto e il basso tornano anche in un film diversissimo, in apparenza, e molto più recente: Parasite di Bong Joon-ho, Palma d’oro 2019 a Cannes. Anche qui la lotta di classe si sostanzia nel confronto tra le due case protagoniste del film: il miserabile appartamento al di sotto del livello stradale, minuscolo e buio, destinato a riempirsi di fango ogni volta che piove, abitato dalla famiglia di Song Kang-ho, e la villa immensa e lussuosa, piena di luce e bellezza, della ricca famiglia Park. In un’indimenticabile scena i membri della famiglia più povera corrono da una casa all’altra, sotto la pioggia battente, scendendo un’infinita sequela di gradini.
Le scale sono un luogo assai frequentato anche nel cinema thriller e horror, nei tanti film che utilizzano la casa come palcoscenico principale di terrori e tremori. Viene subito in mente Dorothy McGuire, muta e spaventata, che sale tremebonda la scala che conduce alla sua stanzetta, mentre ombre lunghe e minacciose si allungano su di lei e su chiunque abbia anche il minimo difetto fisico (Il film è La scala a chiocciola di Robert Siodmak, anno 1945). Indimenticabile anche Cary Grant che sale le scale con in mano un bicchiere di latte, forse avvelenato (Il sospetto di Alfred Hitchcock, 1941). Rimanendo nell’universo di Hitchcock, una delle scale più spaventose di sempre è senz’altro quella di Psyco (1960), nella casa di Norman Bates/ Anthony Perkins, dove trova la morte il detective sulle tracce della sfortunata ladruncola Marion Crane/Janet Leigh. Di certo a Hitchcock le scale piacevano, visto che si trovano spesso nei suoi film: nel capolavoro La donna che visse due volte, James Stewart insegue invano il fantasma della donna amata lungo le rampe vertiginose di un campanile, nella missione spagnola di San Juan.
Scale che salgono, verso soffitte ricolme di bauli e oggetti variamente inquietanti – bambole malefiche e libri maledetti, tavolette Ouija e funesti medaglioni – ma anche scale che scendono, di solito verso cantine da cui sarebbe meglio stare alla larga, come nel caso della protagonista del recente e piuttosto terrorizzante The Conjuring – L’evocazione (James Wan, 2013). Imprigionata nello scantinato tra palle che rimbalzano da sole, risate di bambini fantasma e una voce spettrale che le chiede “Giochiamo a battimani?”, la donna vede apparire nel buio due mani che simulano lo stesso gioco che le abbiamo visto fare poco prima con le figlie.
“Nessun posto è bello come casa mia” (There’s no place like home), recitava Dorothy in Il Mago di Oz, eppure se andiamo avanti e indietro nella storia del cinema ne troviamo tantissimi di film che hanno utilizzato le mura domestiche per terrorizzarci. Citarli tutti è impossibile. Ci limitiamo a mettere in fila qualche titolo noto, insieme a qualcosa di meno famoso ma che potrebbe valere la pena di recuperare.
Procedendo in ordine cronologico, potremmo partire da un gioiellino dimenticato: La casa sulla scogliera (1944) di Lewis Allen, con Ray Milland musicista londinese alle prese con i fantasmi crudeli di una villa abbandonata in Cornovaglia, tra gemiti notturni, correnti di aria gelida e intensi e inspiegabili profumi di mimosa. Per poi proseguire con La casa dei fantasmi (William Castle, 1959), con Vincent Price nei panni di un dispotico riccone a caccia di spettri (o forse soltanto di sangue). Del decennio successivo si potrebbe ricordare Gli invasati (Robert Wise, 1963) dove l’indagine sul paranormale sembra aver una base scientifica all’inizio, ma il risultato finale non si discosta dal solito, tra cadaveri e spaventi.
Gli anni Settanta sono decisamente un buon periodo per le case infestate. Si inizia nel 1970 con La casa che grondava sangue (Peter Duffell, 1970), con Peter Cushing e Christopher Lee, ma la vera protagonista è una villa di campagna capace di provocare la morte di tutti i suoi proprietari, nessuno escluso. Si prosegue con Ballata macabra (Dan Curtis, 1976), in cui Oliver Reed e Karen Black sono gli incauti affittuari di una magnifica casa vittoriana che ha un brutto difetto: si nutre (letteralmente) della linfa vitale dei suoi occupanti. Ma il titolo del decennio resta Amityville Horror (Stuart Rosenberg, 1979), un clamoroso successo, pare ispirato a una storia vera, con la sconsiderata famiglia Lutz (guidata da James Brolin) che si trasferisce in una casa in precedenza teatro di una strage. A combattere contro le presenze demoniache c’è il prete esorcista Rod Steiger, però nessuno gli vuole dare retta. Un successo proseguito nel tempo e scandito da sette sequel e un remake nel 2005.
Scollinando nel decennio successivo, ecco La Casa (1981), folle e geniale affresco horror firmato da Sam Raimi, che si diverte a catapultare i terribili demoni sumeri usciti dal leggendario “Necronomicon” in un cottage sperduto tra le montagne americane. Tra i titoli memorabili degli anni Ottanta c’è poi Poltergeist (1982) di Tobe Hooper, di cui tutti ricordano l’immagine della bambina davanti al televisore acceso e in diretto contatto con gli spiriti sepolti nel cimitero indiano, sopra il quale il solito incauto ha messo su casa. Sempre a inizio decennio ecco un altro film, quasi del tutto sconosciuto ma parecchio terrorizzante, Changeling (1980), con George C. Scott musicista in lutto dopo la perdita in un incidente di moglie e figlia. Per riprendersi non troverà di meglio che trasferirsi in un antico palazzo vittoriano alla periferia di Seattle, dove scoprirà l’esistenza dell’infelice fantasma di un ragazzo morto assassinato.
Di fantasmi a caccia di una (impossibile) giustizia è pieno il J-Horror giapponese che s’affaccia sugli schermi a fine anni 90 con Ring, e, parlando di case maledette, soprattutto con Ju-On, diretto nel 2000 da Takashi Shimizu. Primo di una lunga serie di lavori (spesso anche rifatti in salsa americana), Ju-on fissa in qualche modo le regole del gioco, individuando nel rancore che trasforma la vittima innocente in carnefice una sorta di virus destinato a prosperare nelle case che hanno assistito impotenti a violenze e delitti.
Arrivando al nuovo millennio, sono almeno due i titoli da ricordare, per motivi molto diversi: l’elegantissimo The Others (2001) e il ruspante Paranormal Activity (2007). The Others, diretto dallo spagnolo Alejandro Amenábar, con l’algida Nicole Kidman protagonista di una delle più suggestive storie di fantasmi di sempre, sorprende con un inedito ribaltamento del punto di vista: non sono i vivi a vedere i morti ma il contrario. La domanda vera diventa così: chi è l’intruso? chi il legittimo proprietario? Paranormal Activity (2007), storia di una coppia di fidanzati che vivono in una villetta dove accadono strani fenomeni e decidono così di installare una videocamera per registrare tutto, pone invece un altro quesito, forse altrettanto interessante: cosa trasforma un film come tanti in un memorabile successo? Come fa un film girato in 10 giorni nell’abitazione del regista Oren Peli, senza guizzi di stile, in una forma documentaristica piuttosto piatta, a incassare dieci volte il suo costo e trasformarsi in un merchandising miliardario arrivato ormai al sesto capitolo? Un piccolo mistero senza risposta, ma non certo l’ultimo dei tanti che si annidano nelle nostre case.