Filologico Lear

In Teatro

L’approccio al Lear del Bardo, da parte di Giuseppe DiPasquale, ha un incipit d’effetto; poi, però, finisce per seguire schemi troppo tradizionali…

Un uomo, nella penombra, giace a petto nudo su un letto. La prospettiva inclinata, i piedi in primo piano, le membra segnate: tutto fa pensare al Cristo morto di Mantegna. Ma non ci si confonda: non è certo il re dei re colui che abbiamo di fronte, bensì la maestà in dismissione di Lear. Lear il tracotante, Lear il penitente e il matto. Lear che, risorto dal talamo, inizia la sua storia.

È con questa curiosa immagine dichiaratamente “cristologica” che Giuseppe Dipasquale affronta, con la complicità (matt)attoriale di Mariano Rigillo, uno dei testi shakespeariani più cupi. Re Lear è infatti dramma del potere che non lascia scampo: un potere che consuma e logora, in egual misura, chi lo possiede (Regan e Gonerilla) o lo ha posseduto (Lear), chi lo anela (Edmund) e perfino chi non l’ha mai desiderato (Cordelia). Una vera e propria divinità, che, se si fa uomo in Lear, non lo fa certo alla maniera cristiana: ma come un dio greco piuttosto, che, entrando in contatto con l’essere umano, lo stravolge e lo precipita in un destino di morte, disperazione e follia.
Cosa c’entra allora il Cristo mantegnano? Cosa la corona di spine che compare nella seconda parte dello spettacolo sul capo di Lear? Difficile dirlo. Perché se i riferimenti simbolico-iconografici alla cristianità appaiono chiari ed espliciti, assai meno lo sono le intenzioni di Dipasquale, il quale, dopo la bella immagine dell’incipit, sembra esaurire in fretta qualunque volontà interpretativa, affidando al testo shakespeariano e agli attori in campo il compito di risolvere lo spettacolo. Non mentiva dunque il titolo dell’opera quando prometteva di attenersi a un puro e semplice resoconto narrativo: in Lear. La storia tutto si svolge nella più ordinaria delle amministrazioni.

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Certo, si potrebbe sottolineare la scelta di far interpretare a due uomini (Roberto Pappalardo e Luigi Tabita) le due malvagie sorelle, in una presunta fedeltà al teatro elisabettiano (subito peraltro smentita dalla presenza di una Cordelia femminile); o ancora segnalare l’ingombrante presenza del fool clownesco di Anna Teresa Rossini (che ricorda da lontano la coppia Scaramacai-Sbirulino); si potrebbe infine portare come ulteriore attenuante il tentativo di rompere la quarta parete con le continue incursioni in platea. Eppure, a conti fatti, risultano tutti espedienti poco incisivi. La co-produzione dello stabile di Napoli e di Catania rivela infatti la precisa volontà di intercettare un pubblico “tradizionalista”, avvezzo ai modi rassicuranti di un teatro pienamente canonizzato. Non si spiega altrimenti il gusto per una recitazione impostata al limite dell’affettazione, le musiche enfatiche e didascaliche a sottolineare, come in una soap opera, ogni battuta decisiva, né l’utilizzo artificioso dei sipari, chiamati a dare ritmo e vivacità alle quasi tre ore di rappresentazione.

E mentre si radica la convinzione, uscendo da teatro, che per mettere in scena Shakespeare oggi non sia sufficiente l’amor di filologia, il pensiero va a quegli studenti che si confronteranno per la prima volta con l’arte drammatica e col Bardo in un simile frangente. Il consiglio è quello di contestualizzare. Il teatro è – e per certi aspetti è giusto che sia – anche tradizione, ma non temete, è solo una delle sue numerose maschere.

Lear. La storia di Giuseppe Dipasquale. Fino al 16 ottobre al Teatro Franco Parenti

 

(foto di proprietà di Antonio Parrinello) 

 

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