“Bassifondi” di Trash Secco, scritto dai Fratelli D’Innocenzo, è il racconto poetico dell’amicizia senza riserve tra due dropout che vivono sotto i ponti di Roma. Ottimi protagonisti Gabriele Silli e Romano Talevi. Nel documentario “After Work” l’italo-svedese Erik Gandini (“Videocracy”) mostra l’umanità di oggi che si divide tra chi subisce una vita di massacranti giornate di sfruttamento e chi, per scelta o destino, ha voltato le spalle al posto fisso. Oppure guadagna uno stipendio senza fare niente
Scampoli finali italiani, non privi di interesse, nella stagione di cinema. Bassifondi del 31enne Trash Secco (pseudonimo di Francesco Pividori), regista, pittore, videoartista e videomaker (per Achille Lauro e Marracash tra i tanti), sceneggiato insieme al fratelli D’Innocenzo (La terra dell’abbastanza, Favolacce), ha richiesto ben 15 anni di sforzi per la realizzazione: è un’opera poetica quasi a cavallo tra la performance, ai limiti del circense (il Bianco e l’Augusto, il clown triste e il suo partner) dei due ottimi protagonisti Gabriele Silli e Romano Talevi, e la riflessione sociale sul mondo dei dropout romani che vivono sotto i ponti del Tevere. Perché la storia di questa amicizia concreta, reale, sincera, visivamente contrapposta alla falsità del mondo circostante, anzi che sta “sopra”, letteralmente, rispetto al livello del fiume, come dicono spesso i due protagonisti, mette in scena anche la distanza tra due anime tutto sommato pure e una città indifferente, vittima dell’overdose turistica e di consumi.
La difficile, stravagante vita quotidiana di questa “strana coppia”, pur nelle sue venature trash a volte anche fin troppo esibite (il modello, dichiarato, è l’americano John Waters) ha però una tragica svolta quando Romeo, già affetto da una sindrome di disabilità, diventa quasi cieco e si ammala gravemente. E qui il film vira decisamente, con mano sensibile: Callisto abbandona ogni vena giocosa per sprofondare sempre di più nei bassifondi dell’esistenza, e spenderà ogni suo grammo di energia per aiutare Romeo a sopravvivere, o almeno per rendergli meno triste la fine.
Erik Gandini (Videocracy) firma invece con After Work un’opera decisamente ambiziosa, che si offre come una riflessione sulla crisi del lavoro oggi, ma soprattutto sulla fine del mito del lavoro come elemento di promozione sociale, culturale, personale. Sullo schermo scorrono testimonianze eccentriche, come quella dell’autista nera che fa consegne per Amazon quasi 24 ore su 24, o, all’opposto, quelle dei dipendenti dello stato del Kuwait pagati, apparentemente, per non fare nulla tutto il giorno, evitando però così le rivolte che accadono negli altri paesi per la disoccupazione. Completano il quadro dati significativi come la bassissima (15%) percentuale di persone che al mondo si dichiarano soddisfatte e coinvolte nel proprio lavoro e pareri illustri, un po’ scontati a essere onesti, da Noam Chomsky a Gianis Varufakis,
Nel complesso, Gandini qui sembra giocare più il ruolo di giornalista che di saggista. Non tira saggiamente nessuna conclusione da questo giro d’orizzonte, ma così facendo si spinge forse un po’ troppo in là nel non prendere alcuna posizione Se è vero che in molti paesi e in molti strati sociali il lavoro è oggi sempre più duro, sotto pagato, prolungato nel tempo, ossessivo, resta il fatto che chi non ce l’ha avrà forse più tempo libero e meno traumi da supersfruttamento, ma perde anche quell’insieme di sicurezze e valori (non solo economici, di sopravvivenza, ma di consapevolezza di sé e del proprio peso nella realtà) che hanno costituito la base psicologica, non solo ideologica, di un’intera e non certo breve fase della storia umana. Lo dimostra il fatto che per miliardi di persone hanno ancora un forte significato, e garantiscono loro di campare, crescere figli, avere qualche soddisfazione. Pure in giornate assai spesso massacranti.