Fondazione Pomodoro: offresi stanza per giovani artisti

In Arte

Con la Matrice di tutti i segreti si inaugura il ciclo delle “Project Room”, iniziativa con cui la Fondazione Arnaldo Pomodoro mette a disposizione di artisti Under 30 uno spazio per esporre le proprie opere. Il curatore Federico Giani ha intervistato per noi gli artisti Andrea Cozzi, Stefano Cozzi e Marie Janssen.

Con la Matrice di tutti i segreti si inaugura il ciclo delle “Project Room”, un’iniziativa realizzata con il contributo di EasyReading Multimedia, con la quale la Fondazione Arnaldo Pomodoro mette a disposizione il proprio spazio espositivo e la propria esperienza pluriennale per offrire ai giovani artisti Under 30 un sostegno concreto alla maturazione della loro ricerca formale e della loro riflessione culturale.

Per questo primo appuntamento Andrea Cozzi, Stefano Cozzi e Marie Janssen hanno realizzato un’installazione ispirata a 1200 sacs de charbon suspendus au plafond au-dessus d’un poêle (letteralmente 1200 sacchi di carbone appesi al soffitto sopra una stufa), un’opera che Marcel Duchamp realizza nel 1938 per l’Exposition Internationale du Surréalisme. Abbiamo chiesto al curatore, Federico Giani, di intervistare per noi gli artisti.

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Marcel Duchamp, 1200 sacs de charbon suspendus au plafond au-dessus d’un poêle, 1929.

Federico Giani: Stefano, in Forecasts rielabori l’immagine duchampiana dei sacchi trasformandoli in gabbie metalliche che ricordano molto quelle che si usano per formare il cemento armato. Come mai un nome così dubbioso – forecast significa previsione – per una forma che al contrario sembra ben salda?

Stefano Cozzi: Sono partito da una logica di aggiornamento, cercando di individuare quali potessero essere gli equivalenti odierni degli elementi scelti da Duchamp nel 1938 per la sua installazione. I sacchi di carbone sospesi al soffitto rappresentavano una mediazione fra la mente (il braciere) e l’inconscio cui essa non poteva accedere (il carbone contenuto nei sacchi), erano una sorta di mediazione, di infrastruttura che nascondeva il proprio contenuto. Aggiornare questa immagine ha significato anzitutto constatare come, da ottant’anni a questa parte, le infrastrutture sociali si siano evolute verso una sempre maggiore trasparenza, mantenendo però paradossalmente la loro impenetrabilità, come delle gabbie.

La struttura che hanno assunto si ispira a quella dei condotti di areazione e, in generale, agli spazi interstiziali che fanno parte di un edificio ma che sono fatti per non essere visti. Hanno una forma che proviene dall’architettura ma che, estrapolata dal suo contesto, assume un aspetto tutt’altro che rassicurante, anzi direi piuttosto un carattere indefinito. È analogo al modo in cui oggi siamo portati a relazionarci con le cose e con noi stessi: ci sembra di avere tutti gli elementi necessari per agire eppure il nostro rapporto con la realtà prende costantemente la forma di una previsione, quasi meteorologica o finanziaria.

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FG: Il contenuto delle gabbie non si limita a svelare quello dei sacchi di Duchamp; oltre al carbone infatti hai inserito anche dei lingotti di silicio, che sono oggetti particolari, quasi dei missili pronti al lancio…

SC: Anche la scelta del silicio è stata dettata dalla logica dell’aggiornamento: equivale al carbone, che è stato alla base dello sviluppo industriale, perché con questo materiale si realizzano i microchip di ogni computer e i pannelli fotovoltaici, è l’elemento alla base della rivoluzione tecnologica ed energetica. Del silicio mi interessa anche la sua ambivalenza: è un supporto che permette l’accumulazione tanto di informazioni quanto di energia.

Molti visitatori hanno avuto la sensazione che si trattasse di missili, un aspetto al quale non avevo pensato all’inizio. Tutto sommato però mi sembra un’osservazione interessante: se nel 1938 Duchamp dava forma alla volontà dei surrealisti di liberare l’inconscio, potremmo dire che oggi, bene o male, le “bombe dell’inconscio” sono contenute e neutralizzate dalle infrastrutture sociali. Forse nel tempo trascorso dal 1938 a oggi abbiamo scoperto di più chi siamo, ma questo ci lascia per ora con una strana paura del nostro potere.

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FG: Marie, tu hai sostituito il braciere da esterno di Duchamp con una stufa, una Kachelofen come indica il nome stesso dell’opera, in tedesco. È un elemento con un forte portato di tradizione, giusto?  

Marie Janssen: Nei paesi più freddi dell’arco alpino la stufa era un elemento indispensabile per la vita degli uomini, l’involucro costruito per custodire e contenere il fuoco. Era situata nel cuore della casa e i suoi abitanti, consapevoli della sua importanza, la guarnivano di decori preziosi. Un aspetto che mi interessava recuperare di quell’epoca, e che mi sembra oggi quasi completamente perso, è il fatto che il calore che alimentava la vita domestica aveva un corpo visibile, e la vita domestica stessa assumeva la forma della stufa.

La stufa, inoltre, era un luogo di raccoglimento: spesso, essendo l’unico luogo caldo della casa, la gente si riuniva attorno alla stufa per parlare, per raccontarsi con calma gli avvenimenti della giornata, per ascoltare delle storie. Questa immagine del luogo accogliente si alterna, nella tradizione, con l’idea inquietante della stufa come sede di spiriti e demoni, eredità di antichi culti del fuoco.

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FG: La tua opera recupera il tema dell’occultamento che Stefano in un certo senso cerca invece di disinnescare. Sia la forma antropomorfa sia il calore emanato suggeriscono che sotto il velo si nasconda un corpo: è una presenza nascosta da un oggetto o un oggetto che prende vita?

 MJ: La forma della stufa ricorda i sacchi di Duchamp: come la tela dei sacchi, così il tessuto della stufa avvolge un contenuto che rimane sconosciuto. I veli celano sempre qualcosa, trasformando in un mistero l’oggetto che coprono, sono mezzi di dissimulazione. Come la sagoma, anche il calore è un indizio per indovinare cosa potrebbe nascondersi sotto il telo della stufa.

Volevo che la misteriosità di questo oggetto tornasse in primo piano, generando un’impressione simile a quella che aveva la gente quando, accanto alla stufa, si raccontava storie e leggende: non si era mai del tutto certi se la stufa fosse semplicemente un oggetto o se – come succede in certi racconti – a furia di partecipare alla vita degli uomini ascoltandone i racconti potesse anche lei prendervi parte. La mia è, in un certo senso, una problematizzazione dello statuto dei media.

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FG: Andrea, gli Unknown Knowns sembrano un incrocio fra ombre, impronte e i residui di una combustione, come se il carbone dell’opera di Stefano fosse passato per la stufa di Marie e noi osservassimo il prodotto di questo passaggio… Cosa sono le “cose che non sappiamo di sapere”?

 Andrea Cozzi: Il titolo dipende da una dichiarazione rilasciata nel 2002 da Donald Rumsfeld, allora ministro della difesa americano. In occasione di una conferenza stampa, cercando una formula per legittimare la dichiarazione di guerra all’Iraq, affermò che: “Ci sono cose che sappiamo di sapere. Ci sono cose che sappiamo di non sapere. Ci sono cose che non sappiamo di non sapere”. Come notò poi il filosofo  sloveno Slavoj Žižek, aveva tralasciato di aggiungere il quarto assunto fondamentale: esistono anche “le cose che non sappiamo di sapere”, cioè l’inconscio freudiano, le convinzioni e le ipotesi a cui non siamo neppure consapevoli di aderire. Gli Unknown Knowns rappresentano oggetti comuni della vita dell’inizio del terzo millennio, resi irriconoscibili da un’accelerazione temporale, come fossero stati appena estratti da uno scavo archeologico del futuro. Volevo visualizzare questo rapporto, spesso mancato perché dato per scontato, che abbiamo con le cose di tutti i giorni.

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FG: Nella tua opera il tempo e il fuoco hanno un’azione simile, consumano e trasformano gli oggetti corrodendoli e rendendoli irriconoscibili, quasi cercassero di cancellare dalla memoria collettiva la loro funzione, il loro scopo… sembra di assistere a una sorta di “archeologizzazione” della contemporaneità.

 Andrea Cozzi: Per la nostra generazione il mondo intero sembra presentarsi come “familiare”, immediatamente conoscibile e accessibile in ogni suo aspetto. Ma gran parte di questa sensazione di “familiarità” è illusoria e mediata. Questa “archeologizzazione” è il tentativo di spingere l’osservatore a riconoscere che ci sono aspetti della realtà che diamo per scontati e che, senza che ce ne rendiamo conto, contribuiscono al nostro modo di rapportarci con le cose. In uno scavo archeologico vengono in superficie gli oggetti più diversi: non è immediatamente riconoscibile ciò che ha un significato storico e ciò che non ne ha. Sono rimasto molto colpito quando ho scoperto che qualche anno fa, in Francia, un tifoso di calcio è stato multato per aver realizzato dei graffiti su un sito di scavi preistorici: le autorità esclusero a priori la possibilità che quei graffiti, un giorno, potessero diventare oggetto di ricerca archeologica. È così ovvio?

 

 

Andrea Cozzi, Stefano Cozzi, Marie Janssen, La matrice di tutti i segreti, a cura di Federico Giani, Fondazione Arnaldo Pomodoro, fino al 16 aprile.

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