Uno romanziere improvvisato e il suo insegnante cercano in carcere la libertà dall’isolamento in un reciproco, ironico, gioco di specchi che si trasforma in una riflessione sulla scrittura
Uno scrittore improvvisato e il suo insegnante cercano in carcere la libertà. Un castello. Una prigione. Questi i luoghi in cui prende corpo La Fortezza di Jennifer Egan, romanzo uscito nel 2006, ma arrivato in Italia solo ora grazie a Minimum Fax e alla traduzione di Martina Testa.
Mura e sbarre, dunque, che diventano in questa storia, costruita su piani narrativi differenti, la barriera in grado di separare l’individuo dal contatto con la realtà. E con gli altri. Una privazione che può portare all’isteria. O a cui si può inaspettatamente rispondere con una scoperta. Quella della parola e del suo effetto liberatorio. Perché La Fortezza non è solo un romanzo spiritoso e divertente ma anche una riflessione più o meno esplicita sulla scrittura.
Non a caso, il narratore della storia, è uno scrittore improvvisato, Ray, che senza sapere bene il perché ha deciso di seguire un corso di scrittura. Dove tra detenuti scalmanati e assolutamente fuori dall’ordinario (del resto ogni personaggio della Egan che si rispetti è un po’ così) accade qualcosa. Che Ray avverte in Holly, l’insegnante. E nelle sue parole. Che da «pippone motivazionale» si trasformano come per miracolo in qualcosa di reale. Avente l’effetto di «un piccolo scoppio dentro al petto».
Da quel momento in poi, ogni parola detta e sentita diventa per Ray un particolare prezioso da trascrivere e conservare. «Perché ciascuna ha dentro il Dna di una vita intera». Di quella vita che dopo l’ennesima sbandata – omicidio dopo un passato in mezzo alla droga – sembrava destinata a spegnersi. E che ora tra gli spazi ristretti di un carcere, riprende lentamente a pulsare.
Sarà per l’attrazione che prova per Holly o per la persuasione delle sue parole, accade che Ray inizia a scrivere. Di una storia che sembra irreale tanto è assurda. «Quello che voglio sapere Tom, quando finisco di leggere il mio pezzo in classe, è quale di questi pagliacci sei tu?». Ma di una storia che in fondo è tutta vera. E che parla di Danny, di suo cugino Howard e del suo folle progetto di trasformare un castello dell’Europa Centrale in una specie di resort consacrato alla solitudine ed alla riflessione.
L’incipit del romanzo (o della storia di Ray, siate voi a decidere), con una botta d’irrealtà resa digeribile ed affrontabile soltanto dall’appartenenza della storia all’universo della Egan, coglie un newyorkese munito di trolley e parabola satellitare, di fronte ad un castello medievale. Potrebbe apparire un azzardo letterario da evitare prontamente, ma chiudendo il libro, invece, grazie alle mani esperte dell’autrice americana, sempre ironica ed inventiva, questo buffo quadro è solo il punto di partenza di un romanzo insolito e divertente.
La Fortezza si serve di situazioni estreme intrecciando due storie che appaiono l’una come il riflesso ribaltato dell’altra. Se da una parte è simile la condizione cui Danny e Ray si trovano a vivere, cioè quella dell’isolamento, dall’altra parte, diversa è la reazione. Per Danny, infatti, la permanenza nel castello ha l’effetto di una morta anticipata; per Ray invece, l’incontro con Holly in carcere quello di un risveglio. Un contrasto dunque su cui la Egan sembra giocare nel corso della narrazione. Quando ai goffi e isterici tentativi di Danny di riallacciare un contatto qualsiasi con il mondo, segue la voce di Ray che parla di un amore bello e terribile, capace di nutrirsi di soli sguardi e sfioramenti.
Un contrasto efficace e che ha il merito di fare di questo romanzo una lettura piacevole nel corso della quale a momenti davvero esilaranti se ne alternano altri più teneri e profondi.
“La Fortezza” di Jennifer Egan (Minimum Fax, pp.320, 18 euro)