“Forza maggiore”: lo svedese Ruben Östlund gira un film teso e feroce sul tracollo di una famiglia apparentemente perfetta. Si ride anche, ma a caro prezzo
Ebba e Tomas sono giovani, belli, atletici, benestanti, sposati, felici. Insieme ai figli, biondissimi ed educati, decidono di regalarsi una settimana di relax a cinque stelle sulle Alpi francesi. Un evento catastrofico e imprevisto, pur privo di tragiche conseguenze, sovverte però l’equilibrio (apparente) della coppia, incrinandone i rapporti in maniera sostanziale e forse definitiva.
Presentato a Cannes 2014 nella sezione “Un Certain Regard”, dove ha vinto il Premio della Giuria, Forza maggiore di Ruben Östlund si apre su un quadretto idilliaco: una famiglia sorridente e unita in posa sulle piste da sci per un ritratto fotografico. L’aria è tersa, il sole splendente, i sorrisi smaglianti, gli abbracci affettuosi. Niente sembra poter scalfire questa immagine solida, armoniosa, eppure durante una “valanga controllata” qualcosa di inaspettato accade: Tomas scappa, lasciando moglie e figli in balia del pericolo. Quando la nuvola di polvere di ghiaccio si posa (in realtà, si è trattato solo di questo), lui torna indietro, sperando di riprendere il proprio ruolo (meglio, il proprio posto, essendo la famiglia al tavolo di un ristorante). Ma nulla sarà più come prima.
Il regista inizia così un’analisi bergmaniana (il riferimento è d’obbligo) tra le pieghe di una crisi coniugale ed esistenziale che, esattamente come una valanga, si ingigantisce parola dopo parola, confronto dopo confronto. Un’analisi feroce, che mette in discussione le nostre sicurezze di uomini civilizzati, interrogando in maniera insistente e inopportuna, mai banale, la natura dei nostri istinti, le maschere sociali che usiamo indossare, il ruolo del maschio nella collettività.
Scopriamo così che all’interno di questo nucleo famigliare apparentemente perfetto non c’è più possibilità di comunicazione tra chi non può dimenticare e perdonare (la moglie), chi non sa ricordare e rielaborare (il marito) e chi non ha gli strumenti per decifrare la situazione (i figli). E mentre le certezze vacillano, le aspettative si infrangono e le maschere cadono, il regista procede imperterrito con un’asciuttezza chirurgica e un rigore che ricordano Haneke, ma che lasciano spazio anche all’ironia. Si ride spesso, infatti, in Forza maggiore, e di gusto. Ma quello di Östlund, anche autore della sceneggiatura, è un riso crudele, che non concede sollievo: più affonda il suo sguardo spietato tra le miserie e le viltà dei protagonisti, più i loro dubbi e le loro inquietudini sembrano uscire dallo schermo per travolgerci tutti, come una valanga, appunto. Come ci comporteremmo in una situazione simile? Quanto sono forti, alla prova dei fatti, i nostri valori? Siamo davvero capaci di governare i nostri istinti?
Gradualmente ma inesorabilmente, il film riesce così a instillare nello spettatore una sensazione di disagio e inquietudine che lo accompagna durante tutto il racconto, cadenzato, con sempre maggiore perentorietà, da una scansione diaristica ossessiva e dalle note del Concerto No. 2 in sol minore di Antonio Vivaldi. Sensazione che si conferma e amplifica nel bellissimo finale sospeso e straniante, in cui un’umanità confusa e letteralmente smarrita marcia compatta e solidale, fianco a fianco, ma senza una meta precisa. Angosciante.