A otto anni dal Leone d’Oro veneziano di “Lebanon”, il regista di Tel Aviv ha fatto di nuovo centro, vincendo stavolta in Laguna il Premio Speciale della Giuria, con un moderno racconto, in qualche modo alla maniera dei greci antichi, di morte, conflitto e Fato. Si narra la fine del giovane Jonatan, in servizio in un remoto check-point nel deserto, annunciata con troppa fretta ai genitori: e insieme si rivivono le parallele esistenze, sua e del padre, compresi i loro tragici errori militari, che appaiono come scritte da un Destino odioso e inevitabile. Un inferno familiare non privo di momenti satirici
Il regista israeliano Samuel Maoz, dopo il suo primo lungometraggio Lebanon del 2009, grazie al quale ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra Venezia (molti ricorderanno le terribili immagini della guerra del Libano del 1982, vista dagli occhi di tre soldati israeliani attraverso le feritoie del carro armato dentro cui stavano combattendo), torna sul grande schermo con Foxtrot – La danza del destino, che sempre in Laguna a ottenuto lo scorso anno il Leone d’Argento, cioè il Premio speciale della giuria. Nato a Tel Aviv nel 1962, Maoz ha iniziato a girare film e documentari fin da giovanissimo, e in questa nuova pellicola non esprime solo la sua anima da regista, ma anche quella del militare. Addestrato come mitragliere, ha fatto parte dell’equipaggio di un carro armato e anche in Foxtrot emerge tutta la tragedia di quel conflitto strisciante che è la realtà contemporanea di Israele, raccontato da un ragazzo che lo vive sulla propria pelle.
Attraverso una struttura circolare, il film ripercorre le vicende di una famiglia che va in pezzi, si ricompone, e segue il suo destino, il tutto accompagnato da una tragica ironia. Suddiviso in tre atti, il racconto si concentra ora sui genitori di Jonathan (Yonatan Shiray), il giovane soldato sul campo, ora sul ragazzo stesso, intento ad “adempiere al suo dovere” (la formula pomposa e marziale con cui gli ufficiali annunciano la sua morte alla madre, all’inizio del film) con i compagni di missione, “abbandonati” in un check-point perso nel nulla. Quando Dafna (Sarah Adler) e Michael (Lior Ashkenazi) vengono informati dall’esercito che il figlio è “caduto per difendere la patria”, la loro esistenza ne viene ovviamente sconvolta. Come sopravvivere alla perdita di un figlio? Una madre, per sopportare il dolore, non può che affidarsi ai burocrati dell’esercito, che all’apparenza vogliono prendersi cura di loro, consolarli, ma in realtà si occupano più che altro di eliminare il sintomo “dolore” con farmaci e antidepressivi potenti, tanto da renderla catatonica per ore. Michael, invece, l’uomo, il capofamiglia, non può permettersi nemmeno di dare libero sfogo alla sua disperazione, e ha l’obbligo di controllarsi e pensare al funerale, agli abiti, mentre gli viene persino negata la possibilità di vedere il corpo del figlio prematuramente mancato.
In questa drammatica situazione, Michael viene raggiunto dal fratello, Avigdor (Yehuda Almagor), zio del caduto, che come i militari offre un sostegno prettamente pratico, atto alla sopravvivenza del momento, poco all’elaborazione, al superamento del lutto. Nessuno di questi messaggeri di morte trova il modo di aiutare l’uomo emotivamente, si curano solo di ciò che deve essere fatto. Anche Avigdor porge le sue fredde condoglianze al fratello: certamente bere un bicchiere d’acqua ogni ora e attivare una sveglia per ricordarsene, può avere la sua utilità, ma Michael osserva tutte queste persone che gli stanno intorno con fastidio, ostilità, senza poter crollare, consapevole del suo dovere.
Poi il film vira decisamente sulle vicende di Jonatan, che ripercorre la stessa strada del padre (e in fondo anche di Maoz, in parte), anch’esso con un passato nell’esercito, prima di diventare un architetto di successo in età adulta. Le loro esistenze sono collegate da un analogo errore, compiuto sotto le armi, dalle conseguenze catastrofiche, un evento che ne ha segnato la coscienza in modo indelebile. E in questa successione di eventi, che è il vero nucleo tematico di Foxtrot, padre e figlio appaiono legati da un filo sottile e malleabile, per cui al movimento di uno ne consegue l’azione inconsapevole del secondo, destinata ad essere il principio della fine dell’altro.
Maoz si appropria della struttura classica della tragedia, focalizzando l’attenzione sulla vita, dai risvolti ironici, dell’eroe tragico, in balia del suo destino senza possibilità di scelta. La tragedia si condensa nell’assurda lotta contro il fato, così impossibile da battere da rendere vano ogni tentativo di contrasto o anche di fuga: non si può sconfiggere, e non ci si può nemmeno sottrarre al suo corso. Così lo spettatore osserva Michael e Jonatan andare nello stesso modo, inevitabilmente, incontro a ciò che è già stato scritto per loro. Come Edipo non può che diventare una pedina del suo tragico destino, così padre e figlio percorrono una strada già tracciata in quello che sembra un disegno complesso, più grande di loro. E la fine del film, su quella strada dissestata, a bordo di un mezzo militare, che abbiamo già esplorato nella sequenza iniziale, ha il senso di un percorso ineludibile.
Un film inevitabilmente drammatico, che con una vena ora malinconica ora critica guarda all’orrore della guerra con uno sguardo intimo, entrando forzatamente nel focolare di una famiglia abbiente, culturalmente elevata, che perde ogni cosa a causa di un solo, tragico evento. Il regista ci immerge all’interno di questo inferno domestico, e grazie a lui subito ci immedesimiamo prima con le figure genitoriali, poi con il giovane stesso, portandoci a una riflessione così profonda che pochi film recenti sono riusciti a sollecitare.