Sullo sfondo di New York, l’equivoco borghese della realizzazione personale secondo Francesco Pacifico
Roma come New York, o forse il contrario, nella corale apoteosi e condanna dell’esterofilia alla base dell’ultimo romanzo di Francesco Pacifico. La cui chiave di volta, a scanso di equivoci, è interamente racchiusa in un incipit dall’incisività eccezionale: «La realizzazione personale di un borghese non vale il denaro che costa».
Un’asserzione che ha i toni della sentenza, ai dettami della quale si inchinano le vicende dei protagonisti. Un critico musicale, un agente letterario, un sedicente “filmmaker” con Sposina al seguito – cinema-musica-letteratura: la trinità velleitaria per eccellenza, messa a nudo nelle sue manifestazioni più grette e tristi –, ma anche un più convenzionalmente rispettabile lavoratore padre di famiglia.
Un carico umano di sentimenti disparati di cui scopriamo pian piano le origini nascoste, declinazioni diverse di traumi remoti e speranze mal riposte; storie che, al di là dell’intensità con la quale si esacerbano, sembrano esaurirsi all’interno della cornice essenziale offerta dal sottotitolo «Vite infelici di romani mantenuti a New York».
A sintetizzare la trama del romanzo basta infatti questa definizione, che è solo un modo discreto di alludere al vero comune denominatore delle borghesissime esistenze raccontate: la frustrazione.
Sullo sfondo di una New York fatta di interni, vissuta quasi esclusivamente entro i limiti della visione che di lei si offre dalle finestre degli appartamenti dei piani alti – con un ibrido anglo-romano a infiltrarsi nei discorsi di questa America italiana dall’erotismo incontrollato quasi quanto i suoi deliri di onnipotenza –, e di una Roma dai quartieri cementificati su denaro e sangue di madri e padri, Pacifico regala ai lettori un desolante affresco dei relitti di una generazione vittima dell’«equivoco della realizzazione personale».
Spietato, sì, ma forse perché incredibilmente attuale.
“Class” di Francesco Pacifico (Mondadori, pp. 324, 19 euro)