Il regista napoletano, simbolo della stagione del cinema d’impegno, è morto ieri. Aveva due miti inaspettati: Jackie Coogan e Fred Astaire. E ballava benissimo
Francesco Rosi era un uomo molto simpatico. Vi sembrerà strano questo inizio per un articolo che dovrebbe essere mesto e circostanziato, nella giornata in cui Rosi ci ha lasciati, a 92 anni (era nato a Napoli il 15 novembre 1922). Eppure, nel momento in cui ci tocca salutare Franco – l’abbiamo sempre chiamato così, non chiedeteci perché: a lui andava bene, gli piaceva – non riusciamo a pensare né alle cose brutte successe nella sua vita, come la morte dell’adorata moglie Giancarla nel 2010, che era stata un colpo durissimo, né al cipiglio che sfoderava quando parlava dei suoi film più famosi (La sfida, Salvatore Giuliano, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti, Cristo si è fermato a Eboli, Tre fratelli), della loro importanza “dialettica” e “didattica”, del fatto che la tv li mandasse in onda solo a notte fonda quando avrebbero dovuto essere (ed è vero!) materia di studio nelle scuole.
No, oggi vorremmo immaginare Franco che arriva nel paradiso dei cineasti e viene abbracciato allegramente dai suoi due miti: Jackie Coogan e Fred Astaire. Sorpresi? Seguiteci, e capirete il perché di questi due nomi.
Rosi aveva un lato “leggero” che abbiamo avuto il piacere, e l’onore, di scoprire in lunghe chiacchierate che magari iniziavano come interviste ma poi finivano a parlare di tutt’altro. Ad esempio, di suo padre: che era un fotografo di talento e un uomo con le mani un pochino bucate, con ambizioni artistiche e scarso senso degli affari.
Una delle tante foto che il padre fece al figliolo partecipò, negli anni ’20, a un concorso internazionale indetto da una major di Hollywood: gli americani cercavano il sosia di Jackie Coogan, il bambino del Monello di Charlie Chaplin, e scelsero lui fra tutti gli aspiranti “monelli” del mondo. Il premio era importante: un viaggio a Hollywood, la prospettiva di un contratto, forse di una lucrosa carriera da attore-bambino. Il padre era pronto, la madre – che non credeva molto, per usare un eufemismo, ai sogni di gloria del marito – si mise di mezzo. Hollywood perse (forse) un futuro divo e l’Italia guadagnò un grande regista.
Parlando di questa storia, Franco sorrideva, e si capiva che in una logica da sliding doors non gli sarebbe dispiaciuto sperimentare anche quell’altra vita, quella da “monello”. Del resto, gli attori che hanno lavorato con lui raccontano, tutti, come fosse lui stesso un attore mancato: vedergli mimare le scene sul set pare fosse uno spettacolo, era uno di quei registi (come De Sica, che però era davvero un attore) che fanno le parti di tutti con un entusiasmo e un funambolismo contagiosi.
E lui ricordava sempre volentieri gli aspetti più glamour del mestiere di cineasta: si era divertito moltissimo a girare film sui toreri (Il momento della verità), fiabe seicentesche alla Basile (C’era una volta, con la Loren: chissà se Garrone l’ha rivisto per preparare Il cunto de li cunti), film-opera di ambientazione andalusa (la Carmen, da Bizet).
Non c’era solo l’Impegno con la “i” maiuscola, nel suo cinema e nella sua testa. Era un artista poliedrico, pieno di interessi, con almeno due anime (forse, molte di più). Non a caso, nel suo studio al superattico di via Gregoriana, a due passi da Trinità dei Monti, campeggiavano due foto. Una era la famosa scena di Le mani sulla città, quella del consiglio comunale in cui tutti i politici agitano le braccia gridando “le nostre mani sono pulite”: Franco rivendicava giustamente il copyright di un’espressione che trent’anni dopo quel capolavoro era entrata nel linguaggio comune.
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L’altra era un bellissimo ritratto di Fred Astaire. “l’uomo più elegante che sia mai esistito”, diceva. In realtà, molto di più: il più grande ballerino della storia (non solo del cinema), l’artista che aveva saputo alleviare in modo non banale le pene dell’America negli anni bui della Depressione, il protagonista di film indimenticabili. Forse, il suo modello, il suo mito: era lui stesso un bravo ballerino, ma sognare di essere Fred Astaire è come avere piedi discreti e sognare di giocare a pallone come Maradona. Molti napoletani vorrebbero essere Maradona, Franco era un napoletano che voleva essere Fred Astaire. Unico. E ora, in quel paradiso dei cineasti, di sicuro uno slow con Ginger Rogers non gli sarà negato.
Foto di Aaugusto De Luca