Francesco Zizola racconta il suo nuovo progetto fotografico sullo spreco di cibo, poco dopo che i supermercati francesi per legge non possono più buttare il cibo avanzato
Paradosso e catastrofe, lo spreco alimentare mondiale raggiunge cifre spaventose: secondo i dati delle Nazioni Unite un terzo del cibo prodotto per il consumo dell’uomo va sprecato, perso o buttato via. Nel 2013, l’agenzia fotografica NOOR, fondata, tra gli altri, dal fotoreporter Francesco Zizola (1962) ha deciso di focalizzare il consueto progetto annuale di gruppo «sugli aspetti più controversi e problematici legati alla produzione, distribuzione e consumo degli alimenti a livello globale», nelle parole dello stesso Zizola. L’ho conosciuto un anno fa a Milano, quando venne ospite di New Old Camera a raccontare del suo lavoro e delle sue fotografie.
Proprio nel cortile di New Old Camera, uno dei negozi di fotografia più conosciuti di Milano, e in collaborazione con Mooz, il suo lavoro Waste Not, Want not, nato nell’ambito di quel progetto sul cibo, è stato esposto per qualche settimana. Una serie di nature vive e morte, cibo che ha superato la data “consumarsi preferibilmente entro”, o semplicemente imperfetto, accanto ai volti di chi ogni giorno si occupa di salvarlo affinché non vada sprecato. Un progetto buono, a livello etico, e anche bello, visto che l’idea di accostare i volti ai prodotti è accattivante ed efficace. Un progetto che è ancora in fase di realizzazione. Ho chiesto a Zizola di raccontarmi qualcosa in più.
Com’è nata l’idea del progetto fotografico Waste not, want not?
Ogni fotografo [di NOOR] aveva il compito di realizzare una storia declinando un aspetto specifico di questo tema, incredibilmente vasto e complesso. Io ho scelto di analizzare il problema degli scarti alimentari perché si tratta di una realtà che ricade direttamente sotto il nostro naso e di cui ogni persona è direttamente responsabile, anche se spesso non ne è pienamente consapevole. Tuttavia, invece di concentrarmi sullo spreco fine a se stesso, ho preferito andare in cerca di iniziative che si occupassero già di contenere il problema dei rifiuti alimentari in modo virtuoso.
Come si articola il progetto?
Attraverso una serie di ricerche online e tramite conoscenza diretta e indiretta (io stesso sono da tempo molto sensibile al tema della produzione biologica e della salute alimentare) ho individuato tre diverse realtà che in Europa affrontano il problema in modo differente ma complementare.
Dove è dovuto andare per scovare queste realtà?
In Inghilterra ho visitato Approved Food Ltd, un’azienda che si occupa della vendita di prodotti che hanno superato la data segnalata come best before, e che quindi non sono affatto scaduti ma semplicemente sono oltre la data entro cui se ne consiglia il consumo. Tonnellate e tonnellate di prodotti invenduti entro questa data ma ancora confezionati e perfettamente commestibili vengono gettati dalla grande distribuzione. Grazie ad Approved Food Ltd questi cibi vengono recuperati e rimessi in circolo a prezzi molto vantaggiosi. In questo modo lo spreco viene ridotto sensibilmente e anche le tasche del consumatore ne possono beneficiare.
A Copenhagen, in Danimarca, ho trovato un ristorante senza fini di lucro che fa della lotta allo spreco alimentare la propria missione. Solo cibi di recupero varcano la soglia della cucina di Rub & Stub, che riceve donazioni da parte di produttori e distributori. Il ciclo virtuoso non si ferma qui, ma continua oltre il ristorante perché gli incassi vengono devoluti a promuovere iniziative benefiche.
Infine ho raccontato anche una realtà italiana e romana che mi sta a cuore perché è vicina a noi e ha un grande potenziale nel coinvolgimento dei consumatori. Si tratta di Zolle, un’azienda che distribuisce prodotti alimentari provenienti da agricoltura biologica creando un ponte diretto tra azienda produttrice e i consumatori. La filiera corta permette di minimizzare i danni provenienti dal trasporto degli alimenti e quei prodotti che esteticamente non passerebbero la “selezione all’ingresso” dei supermercati, vengono distribuiti con l’orgoglio di chi è consapevole che l’imperfezione dell’alimento nel contesto biologico è anche sinonimo di genuinità.
In quanto tempo lo ha realizzato?
Prima di tutto c’è stata una fase di ricerche, a cui è seguita quella di organizzazione e pianificazione delle riprese fotografiche, con i necessari contatti, autorizzazioni e appuntamenti da prendere con i protagonisti della storia. Prima sono andato in Inghilterra, poi in Danimarca e infine ho realizzato le riprese a Roma. Dopo aver fatto la selezione degli scatti, i file sono stati editati e composti in dittici. Infine le immagine sono state corredate di un testo introduttivo e di relative didascalie. Credo che tutte queste fasi abbiano richiesto circa un paio di mesi di lavoro, più o meno. Ma si tratta di una tempistica puramente indicativa perché, riprese a parte, in genere si accavallano altri impegni e lavori che viaggiano parallelamente e che io e il mio studio portiamo avanti in contemporanea.
E’ una scelta che nasce dalla mia fascinazione nei confronti del volto umano e della potenza comunicativa che si nasconde nei dettagli di un viso. La fisionomia, la conformazione dei tratti, e più di tutto lo sguardo, trasmettono una storia, raccontano di per sé già molte cose sulla vita, il carattere e le convinzioni della persona a cui appartengono. Inoltre volevo che questa storia di impegno consapevole avesse il volto delle persone che quotidianamente lavorano allo scopo di combattere lo spreco alimentare. Se il problema infatti non riguarda soltanto la grande industria alimentare o la grande distribuzione, ma ogni consumatore finale che si ritrova ad acquistare cibo in eccesso e a gettarlo con disinvoltura nella spazzatura giorno dopo giorno, anche la risposta allo spreco deve avere un carattere individuale e collettivo insieme, ed è giusto che abbia il volto di ogni persona che si impegna per porvi rimedio. I prodotti affiancati ai volti sono altrettanti protagonisti di questa storia. Ognuno di loro è stato infatti recuperato e rimesso in circolo, sottratto allo spreco e valorizzato per le sue potenzialità e qualità nutritive, al di là dell’estetica, della freschezza o di vincoli economici e burocratici. Tra il ritratto e lo still life ad esso affiancato si instaura un dialogo non solo estetico (i rimandi cromatici e formali sono evidenti) ma anche tematico ed etico.
I ragazzi di New Old Camera mi hanno detto che il progetto è ancora quasi inedito: ha già trovato una prossima destinazione?
Per il momento stiamo lavorando a integrazioni e ampliamenti del progetto, che rimane quindi ancora un’opera in fase di completamento.
Il fotogiornalismo può ancora svegliare le coscienze?
Se non ne fossi convinto, avrei abbandonato da tempo questo mestiere. Non solo credo che il fotogiornalismo possa ancora risvegliare le coscienze, ma sono persuaso del fatto che questo suo ruolo storico oggi vada più che mai ribadito, difeso e sostenuto dal rigore dei professionisti che se ne fanno carico. Conosciamo bene gli attacchi a cui è stato sottoposto il fotogiornalismo in questi ultimi anni di feroci diatribe aventi come oggetto la fotografia digitale e la manipolazione digitale delle immagini destinate all’informazione giornalistica. Non è la natura della professione a garantire il raggiungimento dei suoi fini, ma sono gli operatori di quella professione, in questo caso coloro che si definiscono fotogiornalisti, ad avere l’obbligo di rispettare un codice di condotta che sostenga l’attendibilità delle loro immagini. Senza la convinzione e l’impegno personale di ognuno, anche il fotogiornalismo non potrà essere nient’altro che mera illustrazione di disimpegno.
Foto: Francesco Zizola, Juan Garcia, addetto al magazzino, Zolle. Una carota imperfetta ma perfettamente commestibile, coltivata presso una delle aziende biologiche che vendono i propri prodotti tramite Zolle