Con Frankie Hi-nrg abbiamo parlato della sua prima mostra fotografica a MIlano, dei paradossi di New York e di Quelli che benpensano
«Sono diversamente fotografo, non faccio fotografia, ma faccio fotografie». Con queste premesse Frankie Hi-nrg MC, il rapper Francesco di Gesù (1969), inaugura la sua prima mostra di fotografia a Milano. Si chiama METRAPOLIS, è stato realizzato in collaborazione con Fujifilm, è visitabile allo Spazio 22 di viale Sabotino fino all’11 gennaio e racconta della gabbia newyorchese e dei suoi paradossi. «L’ennesima delle mie passioni che rendo pubblica», chiamiamolo eclettismo.
Così continua l’apologia di Frankie, davanti al pubblico di fotografi, giornalisti in borghese, fan, amici. “Diversamente fotografo” «significa che non ho una conoscenza tecnica del mezzo, pari a quella dei veri fotoamatori o dei professionisti dell’immagine». All’inizio sembra un po’ un modo per mettere le mani avanti, come a dire: «Se non vi piacciono, pazienza: è quello che potevo fare con quella che è una passione, non un mestiere: di mestiere faccio altro, io»: cioè, in primo luogo, la musica, quella che lo ha reso famoso negli anni ’90. Il suo stile non è cambiato molto: gli occhiali non li molla, i capelli, al massimo, sono diventati un po’ più brizzolati. Ma in realtà, quella di Frankie non è finta modestia o apologia, sembra semplice onestà. «È lo stesso approccio che ho con la musica – dice, continuando a spiegare in che modo è fotografo –. Non sono un musicista, non so suonare strumenti musicali: so programmare i beat, so usare i campionatori e a modo mio le macchine fotografiche».
METRAPOLIS affronta, in 22 coloratissime immagini, il concetto di città ideale, «a partire da quella rinascimentale, fino a quella di superman». Città ideali perché non esistono nella realtà dei fatti, eppure sembrano concretizzarsi e «coniugarsi perfettamente con il senso della trappola: con quella gabbia che ci viene detto essere necessaria affinché al suo interno si possa essere liberi». Una libertà concessa entro certi limiti. Il paradosso della gabbia è il filo che guida il progetto fotografico di Frankie Hi-Nrg. «L’ho definita una specie di sindrome di Stoccolma, spirito che anima i cittadini, ma anche il singolo visitatore che si trova in una città come New York e diventa orgoglioso di quelle sbarre, anche visibili, messe lì per permettergli di essere libero». Paradosso dei paradossi, e cita qui Benjamin Franklin, «le società che sono disposte a rinunciare a una parte della propria libertà in cambio di un po’ di sicurezza, non si meriterebbero né l’una né l’altra: questo, detto da uno che sta stampato sopra i cento dollari, è interessante».
Il concetto di paradosso è centrale e la parola per il rapper ha un suono gradevole: me ne parla ancora mentre gli faccio qualche domanda a margine della presentazione. Gli chiedo di Bilingual, la mostra di fotografie scattate in Zambia, dove ha seguito una Ong in una missione umanitaria, esposte qualche settimana fa all’Hunter College di New York e poi al Piccolo Cafè di Madison Avenue. «Poter fare qui a Milano una mostra di immagini che ho catturato a New York, dopo aver fatto a New York una mostra di immagini che ho catturato in Zambia, un po’ per il principio dei vasi comunicanti, porta dei travasi di senso e significato che fanno crescere la consapevolezza che raffinare questo tipo di linguaggio [quello fotografico] è utile e permette di raggiungere ancora più persone e di trasmettere i concetti in maniera quasi più trasparente che spiegarli a parole». Ci accordiamo sul lasciar da parte frasi del tipo “un’immagine vale più di mille parole” e ci intendiamo sulla possibilità che essa, l’immagine, ha di incanalare più strati di significato, «più racconti in uno stesso luogo e spazio, ed è quello che cerco di fare nel rap: sono tante parole in poco tempo per raccontare una cosa articolata».
I rimandi da un’arte all’altra sono frequenti. Quando gli chiedo se nelle sue foto c’è, in mezzo ai paradossi ritrovati, un certo tipo d’ironia, la risposta è affermativa. «Cerco di metterla anche nella musica, in tutto quello che faccio, e per forza di cosa finisce anche nelle fotografie». Gli chiedo se, tra tutti quegli scatti, che vanno dall’acuta fotografia di strada a un approccio più concettuale, ce n’è una preferita. «Una preferita no. Il dittico It Takes a Million of Millions to Hold Them Back, pt. I e pt. II mi piace particolarmente, come mi piace Transit to Jamaica, fotografia del vagone della metropolitana, piuttosto che Dislikes a Virgin. Appresso si portano tutto il prima e tutto il dopo di quando le ho scattate e quindi hanno una specifica atmosfera, assolutamente personale, che me le fa apprezzare più o meno». Ma in generale, e torniamo alla musica, «un po’ come le canzoni, ognuna ha il proprio motivo di esistere e gliel’ho dato io e quindi, un po’ come i figli, non se ne può scegliere una preferita».
«Sicuramente quando ho scattato la foto dei manager [parte del dittico] avvicinandomi ho pensato “porca miseria, questo è un plotone di esecuzione”. Indubbiamente quella è una fotografia chiave per tutta la mostra, perché forse quello è il momento in cui mi si è un po’ chiarita la traccia, il fil rouge che univa le mie immagini». Hanno titoli che potrebbero essere brani di un album e giocano con le parole come una strofa di rap, da Will, wall, wheel an chilly willies a Out of tuning, da Motorcade a F.D.U.S.A.T.M.N.T.N.Y.
Guardare NY da dietro la macchina fotografica ha dato a Francesco qualche elemento in più, ma la finestra di osservazione del mirino, «prima di averla davanti all’occhio, ce l’hai nel reale. Io sono un osservatore. Quelli che ben pensano o qualunque altra canzone io abbia scritto, è frutto di una giornata in una città a vedere come sono le persone: quella cosa lì, alla fine, è diventata una canzone. E così è l’approccio per la città, che può risultare poi in una canzone, una mostra, un video, un testo critico. Si tratta sempre di espressione: l’importante è elaborare una sintassi che le renda comprensibili, se si vuole che lo siano. E io ci tengo».
Che cosa vorresti raccontare, oggi, dell’Italia? «I paradossi degli italiani di adesso, la rapidità con la quale ci si straccia le vesti per una cosa e si volta la gabbana per un’altra e si cambia il colore della camicia da nera, a verde, a bruna, a rossa, quello che serve». Sono passati quasi 20 anni, ma Quelli che benpensano è ancora attuale. «Mi sembra che il mondo faccia il possibile per assomigliare a quello che raccontavo in quella canzone». Progetti a breve termine? «Non ho nello specifico un progetto concreto di cui possa parlare. Ho dei progetti, anche legati alla fotografia, ma non solo alla fotografia. Se adesso iniziassi a fare solo fotografia, tempo un anno ne avrei le palle piene e non potrei più farlo per dieci anni. Allora ho imparato a fare un po’ di tutto, ogni tanto, perché poi svacco».
Metrapolis, Galleria Spazio 22, fino all’11 gennaio 2016.