La sedicenne Lokita viene dal Camerun, l’undicenne Tori dal Benin: insieme sono emigrati dall’Africa, insieme stanno imparando la sfida difficile di crescere senza genitori in un paese straniero. Nascosti, sfruttati, fuori dalle regole. Nessun legame di sangue li lega, quindi il governo vorrebbe dividerli. Ma la loro unione è invincibile. I bravi registi di “Rosetta” hanno ammorbidito lo stile duro e rabbioso degli inizi, forse alla ricerca di un pubblico più vasto, ma continuano a raccontare gli ultimi della terra
Tori e Lokita, che danno il titolo al nuovo film di Jean Pierre e Luc Dardenne, si considerano fratello e sorella, si amano, si sostengono, cercano di stare vicini, di affrontare insieme la sfida difficile di crescere senza genitori in un paese straniero. Si sono incontrati da qualche parte lungo le rotte seguite dai migranti provenienti dall’Africa e il loro sodalizio è solidissimo, invincibile, ma lo devono dimostrare, rispondendo a serie infinite di domande trabocchetto e superando ostacoli di ogni genere. E per farsi forza, nei momenti di disperazione, cantano insieme in italiano Alla fiera dell’est, una canzone famosa, del 1976 di Angelo Branduardi.
Lei viene dal Camerun, lui dal Benin, in realtà nessun legame di sangue li unisce e per le leggi del Belgio ciò che conta è solo questo. Niente di personale, sembra voler dire una delle impiegate che respinge la richiesta di Lokita. Niente di personale, stiamo solo applicando le leggi. E le leggi non prevedono che i legami famigliari possono essere frutto di una libera scelta: esistono o non esistono, soprattutto quando sei uno straniero, qualcuno che ad ogni passo deve dimostrare di avere il diritto di calpestare la stessa terra che calpestano gli altri, i cittadini in regola, quelli con tutti i documenti a posto, semplicemente per puro e casuale diritto di nascita.
Ancora una volta dalla parte degli ultimi, i fratelli Dardenne mettono anche in questo caso la loro cinepresa al servizio di chi non ha voce, scegliendo una storia semplice e raccontandola senza il minimo fronzolo, con l’immediatezza di chi non vuole offrire alibi di sorta allo spettatore. Cinema che si vuole politico nel senso alto del termine, che ci dice esattamente che cosa dobbiamo pensare di ciò che ci viene mostrato. Non è un’idea di cinema che si vuole nutrire di ambiguità, sfumature o chiaroscuri. I buoni sono buoni, anche quando compiono atti criminosi, i cattivi restano cattivi e non possono fare altro che dimostrarlo fino alla fine. E noi spettatori siamo chiamati in causa, direttamente, dallo sguardo dei due giovanissimi e sfortunati protagonisti.
I Dardenne anche questa volta riescono a fare un piccolo grande miracolo: realizzare un film moralmente esplicito, politicamente schierato senza il minimo tentennamento, eppure evitare ogni forma di didascalismo. Certo, Rosetta e Il figlio (i due capolavori dei Dardenne) avevano una forza cinematografica assoluta, il coraggio di stare addosso ai personaggi respirandone la rabbia, l’energia, la paura. Tori e Lokita è un’opera indiscutibilmente più “normalizzata”, che conserva forse poco dell’impeto duro e puro di quei primi film, ma rimane un racconto potente, essenziale, da vedere.
I Dardenne, esattamente come agli inizi della loro carriera, traggono alimento per il loro cinema dalla cronaca, dalla realtà, evitano quasi sempre di ricorrere a nomi famosi che possano funzionare come un facile richiamo sulle locandine, ma da qualche anno sembrano aver deciso di aprire il loro cinema a un pubblico più ampio possibile. Una scelta che mi sembra assolutamente giusto premiare.
Tori e Lokita, di Luc Dardenne, Jean-Pierre Dardenne, con Mbundu Joely, Pablo Schils, Marc Zinga, Claire Bodson, Baptiste Sornin