Un’isola, anzi: un lago. Viaggio intorno a Frederik Sjöberg.

In Letteratura

È arrivato da poco in libreria “Mamma è matta, papà è ubriaco” di Frederik Sjöberg, nuovo romanzo di entomologica fascinazione. Si allunga così il catalogo dei titoli pubblicati da Iperborea. “Grazie alla botanica è possibile spalancare certe porte chiuse” afferma l’autore di un microcosmo a puntate, ordito con sapienza.

Un coraggioso bagno estivo presso la spiaggia di Hietaranta, due o tre folli passeggiate a marzo sul mare ghiacciato e quattro o cinque giretti al Kauppatori, il mercato vicino alla banchina da cui partono i traghetti per Tallinn. A questo e poco altro si riducono i miei ricordi del mare di Helsinki, nonostante i cinque anni vissuti tra la città e i suoi dintorni. I miei ricordi sono tutti legati alla terraferma, eppure di acqua, in questi ricordi, ce n’è tanta. Solo che è acqua di lago. A cominciare dai due laghi vicino casa, il Pitkäjärvi e il Lippajärvi, fino a quelli di cui non ho mai saputo il nome, in cui sono saltato dopo la sauna e in cui ho pescato lucci d’inverno forando il ghiaccio.

Quindi mi sembra comprensibilissimo, quasi scontato, che nonostante Frederik Sjöberg viva su Runmarö, un’isola dell’arcipelago alle porte di Stoccolma, la sua casa non si affacci sul mare, ma sulle rive di un laghetto interno all’isola.

Nei suoi primi libri, Sjöberg racconta in lungo e in largo le gioie e i dolori della caccia e della catalogazione degli insetti. Ne L’arte di collezionare mosche dedica molti capitoli alla vita di René Malaise, inventore di una geniale trappola per insetti, e ne Il re dell’uvetta a quella di Gustaf Eisen, studioso di lombrichi.
Nei libri successivi Sjöberg ha spostato la sua attenzione su artisti dimenticati, come Gunnar Widforss (ne L’arte della fuga), Olof Ågren e Lotte Laserstein (in un’opera non tradotta in italiano), ma leggendo interviste e recensioni, continua a essere descritto come entomologo o collezionista di insetti. Che lo sia è incontestabile, che queste attribuzioni oramai gli vadano strette è probabile, che non ci aiutino minimamente a capire Sjöberg e la sua opera, secondo me, è sicuro. Chi lo volesse fare, deve guardare al luogo che ha scelto per vivere, un’isola.

E non lo dico io, lo dice Sjöberg stesso. Soprattutto nei primi libri, perché con l’esperienza si è fatto più cauto ed è diventato un maestro nell’arte sopraffina di far vedere il dito e non la luna.

Tra le tracce che Sjöberg ha disseminato qua e là nelle sue opere, ce n’è una che ricorre più delle altre. È la novella L’uomo che amava le isole di D. H. Lawrence. Già il titolo dovrebbe suonarci come un campanello d’allarme.

La novella si ispira alla vita dello scrittore Compton Mackenzie e racconta di un uomo che si ritira a vivere su tre isole, prima su una grande, poi su una media e infine su una piccola. Si tratta di isole che si possono girare a piedi in una ventina di minuti. A Sjöberg interessa il soggiorno sulla seconda isola. Qui Cathcart, il protagonista, redige una lista dei fiori presenti, «and that was absorbing», precisa Lawrence. La traduzione di absorbing ce la teniamo per dopo, leggiamo invece in Mamma è matta, papà è ubriaco (pubblicato quest’anno da Iperborea nella traduzione di Andrea Berardini) cosa dice Sjöberg:

Il signor Cathcart sapeva qualcosa che anch’io, ben prima di fare la sua conoscenza, avevo imparato: grazie alla botanica è possibile spalancare certe porte chiuse. Bastano un po’ di flora di campo e un’isola. Così facevamo, sia io che lui: cercavamo, cercavamo, e stilavamo un elenco di tutte le specie vegetali trovate. Così, senza uno scopo.

Eccolo che prova a sviarci. Sjöberg prima lancia il sasso: «grazie alla botanica è possibile spalancare certe porte chiuse» e poi nasconde la mano: «Così, senza uno scopo.» Lo scopo c’è eccome, solo che lui lo copre sotto una montagna di parole. Vediamo come prosegue:

Non che io raccomandi questa strategia per sopportare tutto il male e la solitudine della vita, ed è meglio se l’isola – o qualsiasi altra superficie limitata si voglia far propria – è già stata visitata da altri botanici con il medesimo obiettivo. Amici defunti che ti dicono che lì sono presenti 731 specie vegetali. Trovale! Ovviamente non ci riesci mai, ma per certi generi vegetali alla fine la lista risulta completa. Come nel caso del genere Geranium. Già la terza estate sulla mia isola avevo trovato tutte e dieci le specie che generazioni di botanici prima di me avevano registrato.

Rieccolo che lancia il sasso e nasconde la mano. Sjöberg ci parla di 731 specie vegetali, ci racconta che alla terza estate ha già trovato tutte le specie di gerani presenti sull’isola, ma è tutto fumo! È un tentativo di distrarci dalla confessione di non saper come «sopportare tutto il male e la solitudine della vita». Ma stavolta il sasso fa un bel ploff nell’acqua. Acqua di lago, sicuramente.

«Sopportare tutto il male e la solitudine della vita». È questo che spinge Cathcart a recensire tutti i fiori presenti sulla seconda isola. «And that was absorbing».

Lo vogliamo vedere quanto è absorbing questo lavoro?

Tutte le mattine […] andavo, lente alla mano e Systema naturæ sotto il braccio, a visitare una zona dell’isola che a questo scopo avevo diviso in piccoli riquadri con l’intento di percorrerli uno ad uno in ogni stagione. Non vi è nulla di più singolare dei rapimenti, delle estasi che provavo nell’osservare la struttura e l’organizzazione vegetale, il ruolo delle parti sessuali nella fruttificazione, il cui funzionamento era cosa per me completamente nuova. Mi incantava la distinzione dei caratteri generici di cui prima non avevo la benché minima idea, li verificavo sulle specie comuni nell’attesa che mi si presentassero specie più rare.

A raccontare qui non è né Lawrence, né Sjöberg. È Rousseau.

Nella quinta passeggiata de Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Rousseau ricorda il suo ritiro sull’isoletta di San Pietro nel lago di Bienna. Sognava di rimanerci tutta la vita, ma dovette interromperlo contro la propria volontà dopo appena due mesi.

Ritiro. Ecco dove va a parare Sjöberg cercando di non farsi vedere. La botanica è il dito, il ritiro è la luna.

Non è ora chiaro perché chi vuole capire Sjöberg debba guardare al luogo che ha scelto per vivere e lasciar perdere l’entomologia?

Ma da cosa si ritira?

Non lo dice. E non sono affari nostri. Ma chiunque abbia avuto un po’ di fegato per mettersi in gioco nell’agone della vita può farsene un’idea.

Nei suoi primi libri Sjöberg accenna a viaggi qua e là per il mondo, ricorda sbronze in Africa equatoriale. Ma come non dice perché si sia ritirato a Runmarö, così non dice perché sia partito. Probabilmente è valsa anche per lui la legge di Jante.

La legge di Jante? Lasciamo che sia Sjöberg a spiegarci cosa sia.

«Il romanzo En flyktning krysser sitt spor (Un fuggitivo incrocia le sue tracce) non è tra i migliori di Aksel Sandemose. Diciamo pure che è piuttosto malriuscito e diseguale, uno di quei libri di cui ci si stufa dopo due terzi. Se resterà il suo più conosciuto, sarà solo grazie al fatto che lì si trova l’enunciazione della legge più antica del mondo.

La legge di Jante, che prende il nome dal luogo di origine di Sandemose, una cittadina dello Jylland dimenticata da Dio, è sempre esistita: è la legge che ha spinto l’essere umano a conquistare tutte le zone abitabili della Terra. I pettegolezzi e l’oppressione che esistono in tutti i paesini e in tutte le trappole sociali hanno creato la civiltà, è vero, ma gli apparati di controllo hanno dato origine anche a un desiderio di fuga altrettanto forte. Furono i disertori, non i colonnelli, a guidare la conquista.»

Chi di noi non è fuggito almeno una volta, anche con il solo pensiero, dalla propria stanza, dalla propria città o dal proprio Paese? Chi di noi non ha almeno sognato un altrove felice, fosse anche tra le pagine di un libro o davanti a uno schermo?

Sjöberg non ha esaurito le sorprese. Vediamo cosa dice poco più sotto.

«[…] tra gli emigranti svedesi che si trasferirono in America c’era una vasta componente di giovani nubili in fuga da Jante. A differenza degli uomini, si tennero alla larga dalle miniere d’oro delle zone selvagge e, invece di ammazzarsi d’alcol – uno sport sempre popolare tra i maschi che cercano fortuna in terre lontane –, molte tornarono a casa dopo qualche anno, con le tasche piene di soldi e il potere di decidere della propria vita. La madre di mio nonno fu una di loro. Ida. Nata nel 1852. I soldi che aveva guadagnato a Boston si trasformarono in un birrificio a Jönköping. Le serviva soltanto un uomo debole di volontà al punto giusto perché fosse disposto a fare il lavoro sporco.

Ogni epoca ha i suoi migranti, e credo che quasi tutti farebbero come lei. Tornare a casa, ma più forti. L’anonimato tra gli stranieri, le proprie singolarità e tutti gli altri aspetti che all’inizio appaiono così liberatori a chi ha sempre sentito su di sé gli occhi dell’intero villaggio alla lunga diventano un peso troppo grande, tranne che per quei pochi irriducibili eccentrici. E Anton Dich non era tra questi.»

Eccoci arrivati ad Anton Dich, il protagonista putativo di Mamma è matta, papà è ubriaco.

Dich è uno dei «piccoli riquadri» in cui Sjöberg ha diviso la sua isola. Non è importante quanto sia piccolo il tuo riquadro, quello che conta è che gli dedichi tutta la tua attenzione. Infatti Sjöberg ha inseguito per anni le tracce di questo sconosciuto pittore danese, ma Dich attraversa i primi decenni del Novecento impalpabile come l’aria fino alla morte di polmonite in solitudine a Bordighera nel 1935, a quarantasei anni.

Chi sia stato Dich è difficile dirlo. Se l’ennesimo incompreso o l’ennesimo wannabe. Nel libro la sua voce è sottile. Si affaccia a intermittenza sulla superficie delle pagine e si perde tra la voce della moglie Eva e quelle dei quattro fratelli di lei e dei loro discendenti. Sjöberg non affronta questo imponente materiale biografico con il taglio tassonomico dell’entomologo, ma lascia affiorare a ondate leggere le voci dei suoi personaggi.

Ricordano le lievi increspature dell’acqua di lago nelle brevi estati nordiche.

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