“French Connection” di Cédric Jimenez, con l’ottimo Jean Dujardin, riporta a livelli alti la lezione del polar. Anche se il suo stile è piuttosto Made in Usa
Anche la Francia ha un passato fatto di eroi e caduti nella lotta al crimine organizzato. Nel 1981 a Marsiglia viene freddato da due sicari, a soli 38 anni, il “giudice ragazzino” Pierre Michel.
La vicenda, poco conosciuta in Italia (per quanto Michel avesse, nella sua pur breve carriera, collaborato anche con la nostra magistratura, tanto che Falcone andò ai funerali) ha invece in patria una risonanza notevole, portando alla luce delle cronache la “French connection”, cioè il profondo legame tra la malavita corso-marsigliese, quella statunitense e Cosa Nostra, nella produzione e traffico di eroina.
Presentato come fiero esponente del filone polar, il poliziesco alla francese, French Connection di Cédric Jimenez (in Francia semplicemente La French) è in realtà un film decisamente americano, nel montaggio frenetico a colpi di camera a mano delle scene d’azione, nella colonna sonora rumorosa e avvolgente, e, soprattutto, nell’epica della contrapposizione tra l’incorruttibile giustiziere, diviso tra ideali e affetti, e il bandito carismatico, freddo e crudele solo in apparenza.
La somiglianza, anche fisica, tra Michel/Dujardin e il padrino Gaetan Zampa/Gilles Lellouche, ne fa un racconto affascinante oltre la cronaca, e tramuta la torrida, pulsante Marsiglia del 1975 in uno scenario da mezzogiorno di fuoco.
Ma il giovane regista e sceneggiatore Jimenez (al secondo film dopo il thriller Aux yeux de tous), incensato in patria per la fedele ricostruzione di ambienti e atmosfere della Francia anni ’70, ha soprattutto un altro grande merito: quello di scegliere l’attore giusto per ogni ruolo. Non solo i due già citati protagonisti, gli ottimi Jean Dujardin (premio Oscar per The Artist) e Gilles Lellouche (protagonista di Gli Infedeli e Piccole Bugie tra Amici), ma anche tutti gli interpreti minori sono stati selezionati con efficacia e contribuiscono a un gangster movie asciutto e convincente, nonostante le oltre due ore.
Il racconto non scade mai nella caricatura del genere e non ha nulla da temere da raffronti con grandi esempi in patria e oltreoceano, scomodando citazioni più o meno dirette di classici come Gli Intoccabili o Heat – La sfida con l’accoppiata Pacino/De Niro.
Marsigliese d’origine, Jimenez è poi un abile conoscitore del territorio in cui opera e dei suoi abitanti: dipinge nel dettaglio la paura, la passiva accettazione del fenomeno mafioso anche dalle più alte cariche cittadine, e costruisce con delicatezza e credibilità, intorno al proprio eroe tragico, l’accerchiamento e la solitudine che ne determineranno l’inevitabile destino.
Forse proprio in virtù di un taglio ben più epico che documentaristico, non esita a concedersi divagazioni dal crudo fatto di cronaca: tra queste, per quanto efficace dal punto di vista filmico, desta qualche perplessità sul piano etico l’umanizzazione del signore della droga, tramutato in romantico fuorilegge da far west, antieroe poetico quasi costretto all’illecito per il mantenimento delle figlie e la felicità della moglie.
Una visione della vicenda su cui probabilmente il vero Pierre Michel avrebbe avuto qualcosa da ridire.