French Noir d’autore

In Cinema

Film d’apertura all’ultimo Festival di Cannes, il nuovo lavoro comune del regista e dell’attore francesi si apre come film di spionaggio e poi diventa complicata storia d’amore a tre, fra conflitti sentimentali e crisi creative e d’identità. Restano in agguato i maestri: Bergman, Hitchcock, Truffaut. Benoit Jacquot sceglie Isabelle Huppert per girare il remake di un film del grande Losey: risultati modesti

french noir 1 /Amalric-desplechin sopraffatti dai fantasmi del passato

Diretto da Arnaud Desplechin, I fantasmi d’Ismael,  film d’apertura all’ultimo Festival di Cannes, racconta il percorso di Ismael (Mathieu Amalric) attraverso i suoi fantasmi del passato. Il film inizia come una storia di spionaggio, con un gruppo di diplomatici che parlano della scomparsa improvvisa di Ivan Dedalus (Louis Garrel), ma poi scopriamo che si tratta della trama del film che Ismael sta realizzando, prendendo spunto dalle vicende del fratello. Ci ritroviamo in seguito nella casa in riva al mare del regista, dove si è recato con la sua fidanzata Sylvia (Charlotte Gainsbourg) per scrivere, ma qui riemerge Carlotta (Marion Cotillard), la moglie scomparsa e data per morta da vent’anni. Sylvia si sente minacciata dal ritorno e dalla presenza della donna, che capisce molto velocemente che è tornata per recuperare il marito. Ma Ismael non intende lasciare che il suo fantasma, la cui assenza l’ha tormentato per tutti questi anni, prenda il sopravvento sulla sua vita.

Ci addentriamo così in un labirinto di storie, numerose e senza un legame apparente: il cineasta francese mescola generi e vicende tanto che passiamo dal film (nel film) di spionaggio con protagonista Dedalus, nome già utilizzato per Amalric (alter ego del regista) in Comment je me suis disputé… (ma vie sexuelle) e il recente  I miei giorni più belli – film precedenti di Desplechin -, a una drammatica storia d’amore e di ricerca d’identità ambientata nella casa al mare che diventa un teatro a porte chiuse dove va in scena la storia di un uomo diviso tra due donne, e anche quella di un artista che cerca di sabotare il suo ultimo grande progetto.

I fantasmi di Arnaud/Desplechin sono i formidabili testimoni di un precedente stato delle cose, conoscevano i vivi nella loro versione più bella, più pura e rivendicano il posto che hanno perduto. Immutati, arrivano a disturbare tutto e portano con sé un vortice di rimpianti e rimorsi. Nell’improbabile tentativo di far convivere Sylvia e Carlotta, la crudeltà e la violenza non tardano ad arrivare. E nei confronti tra Ismael e Carlotta ci sono lacrime, sangue, ferite ancora aperte. Di fronte alle domande riguardanti la sua scomparsa, lei sa dire solamente: «Volevo annientare la mia vita». E lui risponde: «È la mia vita che hai annientato.»

Questi scambi parossistici e magnifici, in cui si ricerca la verità delle esistenze, ricordano chiaramente Ingmar Bergman, così come certi monologhi recitati guardando in macchina, basti pensare al momento in cui Marion Cotillard racconta il suo matrimonio indiano. Bergman, François Truffaut, Alfred Hitchcock (Carlotta è il primo nome della donna nel ritratto in La donna che visse due volte) sono del resto i maestri di Arnaud Desplechin che riappaiono ancora.

Quello che però infastidisce nella costruzione del film è la sensazione di non riuscire mai a cogliere il vero filo che ci dovrebbe condurre in questo percorso labirintico e psicoanalitico; la costruzione è così caleidoscopica che si finisce per avere l’impressione di aver perso qualcosa. Il cineasta francese riesce comunque a trasportare lo spettatore nell’intimità della storia, nella sua dimensione invisibile, anche grazie a un umorismo cinico e alla sua autoironia: per la prima volta, l’eroe è lui stesso, un regista torturato, imbottito di psicofarmaci, che quando è al culmine della sua angoscia fugge e si nasconde a Roubaix, città natale di Desplechin anche nella realtà. Tale energia comica risulta diversa da quella della disperazione, e alla fine pare anche vincente. L’ultima scena si apre su un orizzonte inaspettato, stranamente radioso. La morte, l’amore, l’affiliazione, tutti i tasselli del puzzle trovano il loro posto miracolosamente e così il dolore, la follia e il terrore sono improvvisamente scomparsi… A meno che non si tratti di una semplice eclissi di fantasmi.

I fantasmi d’Ismael, di Arnaud Desplechin, con Mathieu Amalric, Marion Cotillard, Charlotte Gainsbourg, Louis Garrel, Alba Rohrwacher, Hippolyte Girardot, Samir Guesmi, Laszló Szábó

Anna Chiara Bertoli

 

franch noir 2/ Finisce male la non-storia d’amore di Eva e Bertrand, belli, cinici e mentitori

 Benoit Jacquot si sta “specializzando” in remake di film di colleghi celebri tratti da testi letterari di autori altrettanto affermati. Quattro anni fa si cimentò in Diario di una cameriera, già frequentato nel 1964 da Luis Bunuel sulla base di un romanzo di Octave Mirbeau, poi è stata la volta, partendo da Dom De Lillo, di A Jamais; ora c’è Eva, passato all’ultima Berlinale, che ripropone, sempre senza cambiare titolo, una regia tra le più tormentate di Jospeh Losey (1962) che trovò la sua ispirazione in un romanzo del 1946 della famosa “Serie Noir”, firmato da James Hadley Chase, stavolta rielaborato per lo schermo dal regista e da Giles Taurand. A fronteggiare il modello piuttosto impegnativo (anche se in verità non uno dei capolavori del regista americano), che vantava una protagonista come Jeanne Moreau (più Virna Lisi nel ruolo dell’altra donna), il 71enne regista parigino ha chiamato Isabelle Huppert, elegante e senza cali di tensione ma un po’ imprigionata in un format femminile algido, latamente oscuro, intelligente, calcolatore, che ormai tende a una certa fissità.

Qui è Eva, appunto, prostituta di alti compensi e stile di vita, con coniuge nel campo dell’arte ma al momento in carcere, l’unico uomo che dice di amare davvero. Se non che nella sua vita si insinua lo spregevole Bertrand (è il 33enne Gaspard Ulliel, già protagonista di è solo la fine del mondo, bel film di Xavier Dolan), gigolò senza arte né parte che dopo essersi impadronito di un copione teatrale di un grande scrittore, che ha lasciato morire nella sequenza d’avvvio della vicenda con terribile cinismo, è diventato un famoso drammaturgo con quella piece spacciata per sua: chiamato però a confermare le sua capacità letterarie dall’avido editore/impresario (Richard Berry) che l’ha lanciato, si arrrabatta e rinvia la consegna del primo romanzo (o forse sarà un nuovo copione per le scene, mai lo sapremo) per seria carenza di talento, idee e stile.

Eva, la sua vita particolare e in certo modo avventurosa, i suoi misteri in verità abbastanza banali, il suo erotismo professionale che potrebbe però nascondere, o almeno così spera Bertrand, un nascente innamoramento per quel bel drammaturgo assai più verde di lei, diventa un’ottima fonte d’ispirazione, come lo è già da tempo la sciagurata fidanzata Caroline (che ha il bel volto e la sofferta bionda ingenuità di Julia Roy), già ampiamente finita coi suoi pensieri e le sue parole in più di una pagina dell’infruttuoso tentativo di un nuovo capolavoro.

La complessa triangolazione prosegue tra tournée teatrali, insistiti tragitti in TGV tra le alpi meridionali e la capitale francese e scene di sesso abbastanza tranquille per non turbare il nocciolo mentale e nero che sta al centro dei pensieri di Jacquot, fino allo show down finale, inevitabile e drammatico, anche quello non esattamente imprevedibile, in cui ancora una volta il protagonista sfoggerà il suo totale narcisismo e disinteresse per il genere umano, femminile in primo luogo.

Se in termini noir Eva non eccelle, mancando di un vero meccanismo di paura e di svolte ad alta suspence, fallisce poi, per poca profondità, anche nel ritratto di giovane uomo senza qualità, che più che altro, troppo pigro e mediocre per far lasciar balenare lampi di autentica, affascinante, perfidia, sembra un uomo senza originalità. Ulliel esegue con impegno la mission che Jacquot gli ha assegnato, ma appre subito impari il confronto con Huppert (alla quale comunque ha di recente reso più giustizia e forza il ruvido Elle), e dunque diventa via via sempre più improbabile, nonostante il gap generazionale a suo favore, l’innamoramento di lei; e per sua sfortuna lo sviluppo narrativo gli regala la scena madre più efficace nei primi dieci minuti, anche grazie al montaggio serrato di Julia Gregory, dopo di che tutto consegue piuttosto prevedibile. E così questo confronto tra due esseri umani che per professione (in fondo quella vera di Bertrand è la stessa di Eva), e forse anche per divertimento, fingono e mentono, sul piano fisico e relazionale, non porta i frutti che forse avrebbe potuto in termini di morbosità e ambiguo sentire.

Va da sé che gli echi hitchcockiani, o qulache imput di ispirazione freudiana o hegeliana addirittura, citati da generosi recensori, soprattutto internazionali, sono assai più l’espressione di ciò che si sarebbe voluto (e forse si sarebbe anche potuto) trovare nel film, rispetto a quello che c’è davvero.

Eva, di Benoit Jacquot, con Isabelle Huppert, Gaspard Ulliel, Julia Roy, Richard Berry, Marc Barbé, Ellen Mires

Gabriele Porro

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