Viva la vida! di Pino Cacucci, edito da Feltrinelli, racconta, in forma di monologo, vita, morte e miracoli (pittorici) di Frida Kahlo, tra drammi e passioni, non solo politiche.
Sono nata nella pioggia.
Sono cresciuta sotto la pioggia.
Una pioggia fitta, sottile… una pioggia di lacrime. Una pioggia continua nell’anima e nel corpo
È così che Pino Cacucci inizia il suo ultimo libro intitolato Viva la Vida!, un monologo immaginario tramite il quale racconta la vita di una delle figure femminili più affascinanti del XX secolo: Frida Kahlo. Scorrendo le pagine ci si immerge nel mondo sovversivo dell’artista messicana, un mondo fatto di vitalità, di forza e di legami tanto forti che oggi sembrano irreali.
Figura ormai iconica, Frida rappresenta pienamente l’anima messicana del suo tempo tanto che, pur essendo nata nel 1907, affermerà sempre di aver visto la luce nel 1910, l’anno d’inizio di quella Rivoluzione che libererà il suo amato paese dalla dittatura di Porfirio Diaz e darà inizio allo sviluppo di un vero e proprio sentimento di identità nazionale. La vita e l’operato di Frida, indissolubilmente legati ed entrambi caotici e imprevedibili, si inseriscono perfettamente in questa cornice di rivolte e tumulti.
Frida si avvicina all’arte a causa di una tragedia. A soli diciassette anni, il 25 settembre del 1925 l’autobus su cui la ragazza viaggiava verso casa venne travolto da un tram. Un’asta di metallo le penetrò nell’addome, sbucando dalla vagina. Quando un uomo lo strappò in modo deciso Frida urlò per buttare fuori il dolore, la rabbia, ma anche quel miracoloso attaccamento alla vita dal quale non si libererà più.
È proprio durante il lungo periodo di degenza seguito all’incidente che Frida si avvicina alla pittura, quando i suoi familiari decidono di installare uno specchio sopra al suo letto per darle modo di dipingersi. Ed è anche così che è iniziata la storia con l’uomo che, tra alti e bassi, rimarrà per sempre l’amore della sua vita: Diego Rivera. I due erano così simili e allo stesso tempo così tanto diversi che, il giorno del loro matrimonio, la madre di Frida si rivolse a loro chiamandoli “l’elefante e la colomba”.
Lei minuta, fragile. Lui, alto e robusto. 21 anni e troppi chili di differenza, i due si sposarono per la prima volta nel 1929 e per la seconda nel 1940. L’amore che li univa non era certo idilliaco dato che Diego era famoso in due continenti (America e Europa) come esperto donnaiolo e, anche dopo aver contratto matrimonio, non pose certo fine ai suoi vizi. Era anzi raro che non dormisse almeno una volta con le modelle che posavano per i suoi murales e, nella lunga lista di tradimenti, figura anche il nome di Cristina Kahlo, sorella della sua consorte legale e dipinta nuda nell’affresco del Palazzo Nazionale.
Nelle atipiche dinamiche interne alla strana coppia, però, l’ambiguità era reciproca. Frida stessa infatti non si curò mai particolarmente di restare carnalmente fedele al marito tanto amato e sperimentò con numerosi amanti, di entrambi i sessi, rimanendo pur sempre cosciente che Diego era e sarebbe sempre rimasto il vero amore della sua vita e l’unico degno di essere chiamato tale, nonostante gli innegabili difetti e le sofferenze da lui infertele.
Una tra le sue tante avventure figura anche nei libri di storia. Dopo l’esilio dalla Russia, Lev Trockij cercò riparo in numerosi paesi e giunse anche in Messico. Lì fu accolto grazie all’aiuto di Diego Rivera, allora membro della Lega Internazionale Comunista, che gli offrì alloggio per breve tempo nella residenza della famiglia Kahlo (la così detta “Casa Azul”). Frida presto cedette alle avances dell’ormai anziano politico russo e tra i due iniziò una storia d’amore clandestina contornata da toccanti epistole. Ma, come ci ricorda Cacucci nel suo libro, nemmeno lui riuscì mai davvero a strappare il cuore di Frida dalle grandi mani di Diego.
Oltre ai divertimenti mondani, all’amore per Diego e all’impegno politico, la vita di Frida Kahlo è segnata anche da un’altra tragedia: l’impossibilità di realizzare il suo più grande desiderio. L’impossibilità di dare alla luce un figlio. A causa dell’incidente di cui fu vittima in giovane età, infatti, Frida non riuscirà mai a dare realizzazione a quella sua incessante tensione verso la maternità. Ogni principio di gravidanza, ogni speranza veniva inevitabilmente troncata da un aborto.
Il suo corpo, così fragile, non riusciva a reggere il peso di un’altra esistenza e questo, unito alla malformazione alla gamba destra (conseguenza di una poliomielite contratta a sei anni) e alle ripercussioni dell’incidente, costrinsero la pittrice a passare mesi che parevano dilatarsi sempre più tra i lettini sporchi degli ospedali, tra cure dolorose e gli ormai inseparabili busti e stampelle che usava per spostarsi e sorreggersi. La forza di Frida si vede anche in questo: nel non essersi mai data per vinta, nemmeno quando l’evidenza sembrava urlarle in faccia a pieni polmoni, ma continuando a provare e sperare. “A cosa mi servono i piedi, se ho ali per volare”.
Frida morì il 13 luglio 1954 a Coyoacán, la stessa città in cui era nata. La sua pittura e la sua forza d’animo, però, sono sopravvissuti fino a noi come guida di una società, quella messicana, che annaspava per trovare la sua identità più vera. Con i suoi dipinti Frida Kahlo è riuscita a dar voce a un popolo assimilandolo alla sua propria personalità: forte, indipendente, ed eternamente sognatrice. Oggi, Cacucci ce ne racconta la storia facendola sgorgare direttamente dalla voce della sua protagonista.
Pino Cacucci, Viva la vida!, Milano, Feltrinelli.