Da Rushdie a Zadie Smith, Sam Salvon e George Lamming, l’orsetto Paddington e Lord Kitchener: come scrittori (e musicisti) hanno vissuto e raccontato le frontiere geografiche, linguistiche e culturali
David Cameron ha annunciato un referendum per decidere se il Regno Unito debba o meno rimanere nell’Unione Europea, Svezia e Danimarca chiudono le frontiere, segue l’esempio l’Austria e gli stati dell’ex Jugoslavia. I destini del trattato di Schenghen si fanno sempre più incerti.
Sembra che si stia rivelando esatta la constatazione di Salman Rushdie secondo il quale «Stiamo vivendo, credo, in un periodo frontiera, uno dei grandi periodi cardine della storia dell’umanità, nel quale grandi cambiamenti stanno avvenendo in grande velocità […] quale sarà lo spirito di questa frontiera? Daremo al nemico la soddisfazione di cambiare noi stessi in qualcosa come la loro illiberale immagine specchio piena di odio o, guardiani del mondo moderno e custodi della libertà e occupanti delle terre privilegiate dell’abbondanza, continueremo a provare ad aumentare la libertà e diminuire l’ingiustizia? Indosseremo l’armatura che ci porge la paura o continueremo ad essere noi stessi? La frontiera definisce il nostro carattere e testa il nostro temperamento. Mi auguro che passeremo il test» (da Step Across This Line, si può leggere qui).
Rushdie intende la frontiera sia in senso metaforico che in senso proprio, quello delle migrazioni e del multiculturalismo è un tema molto importante sia nei suoi romanzi che nelle sue opere teoriche. Non so quale sia il pensiero di Rushdie in questo momento, ma credo si possa supporre che il test di cui parlava non stia andando esattamente nella maniera sperata.
La storia continua a riproporsi: dopo una forte ondata migratoria le società civili si sentono minacciate e si chiudono in loro stesse. Il pericolo che temono è quello che Louise Bennett in una poesia del 1966 chiamava Colonization in reverse. Certo, lì si parlava delle minoranze etniche in Inghilterra dopo lo smembramento dell’impero inglese, ma la situazione è di per sé molto più universale: in un certo qual modo è quello che sta avvenendo anche da noi con l’ingresso nella letteratura italiana di voci provenienti da svariate parti del mondo, come ci ha raccontato Giuliana Nuvoli qui su Cultweek. È quello che è successo, un po’ prima, anche alla letteratura inglese, almeno dal 1948 con l’ingresso della Empire Windrush che portava i primi migranti dalle West Indies dopo la seconda guerra mondiale, inaugurando una grande ondata di migrazioni. Sulla nave, fra clandestini e giovani speranzosi di dare una svolta alla propria vita, c’erano anche musicisti e intellettuali che iniziarono lentamente a rendersi visibili in Inghilterra attraverso la loro musica, la loro cultura, la loro letteratura.
Sulla nave c’erano anche due cantanti, già famosi a Trinidad, Lord Kitchener e Lord Beginner: con loro arrivarono ufficialmente i calypso in Inghilterra. I più belli e famosi sono raccolti in London is the place for me: Trinidadian Calypso, 1950 – 1956. Questa musica catturava benissimo il complesso mix di ottimismo e delusione, inclusione ed esclusione vissuto dalla cosiddetta Windrush Generation.
Negli anni cinquanta il ritmo dei calypso si diffonde per le strade di Londra, non è un caso che nella prima puntata della serie tv The hour proprio London is the place for me accompagni la passeggiata del protagonista. The hour è ambientata infatti nel 1956 e attraverso lo specolo di un gruppo di giornalisti racconta il clima della Londra durante la guerra fredda, la crisi di Suez e, lateralmente, si intravede anche un uomo nero che cerca di adattarsi in un nuovo ambiente ostile, fra le scritte no dogs, no blacks e Keep Britain white.
Col passare del tempo il calypso diventa quasi il genere musicale emblema della condizione di migrante: sempre London is the place for me è scelta come colonna sonora del film del 2014 Paddington Bear che racconta di un orsacchiotto che arriva dal Sud America in Inghilterra.
Ma facciamo un passo indietro. Il calypso è un genere musicale caraibico che affonda le sue radici nelle lotte rituali per poi entrare a far parte a pieno titolo della tradizione del carnevale. Da qui vengono le caratteristiche dell’improvvisazione e della satira. Nelle colonie divengono presto espressione di discontento popolare, hanno struttura aneddotica (spesso umoristica o melodrammatica) e si concentrano soprattutto sulle vicissitudini della vita. È probabilmente l’unico bagaglio e l’unica memoria che i West Indians portano con sé in Inghilterra. E diventa anche uno strumento attraverso il quale costruire la propria identità in un nuovo ambiente.
È per questo che i calypso entrano anche nelle opere letterarie: Miss Biss, una dei tanti personaggi di The Emigrants di George Lamming, dice di aver deciso di lasciare Trinidad perché era diventata oggetto di un calypso satirico e non riusciva più a sopportare la vergogna. George Lamming è uno degli scrittori che hanno dato voce alla Windrush Generation mettendo in scena il viaggio e il primo impatto dei migranti con quella che credevano essere la loro madrepatria.
Per loro la frontiera di cui parla Rushdie si è rivelata molto più insidiosa di un semplice confine perché era nella struttura stessa della società: le frontiere erano formalmente aperte, ma nessuno voleva davvero i migranti in Inghilterra, e nessuno credeva che davvero questi black people avrebbero resistito un solo inverno gelido.
Ma così è stato: quando inizia The Lonely Londoners (1956) di Sam Salvon uno dei suoi protagonisti, Moses, è in Inghilterra già da otto anni. Il romanzo di Salvon è quello che più di tutti trasferisce l’estetica del calypso nella letteratura, evidente soprattutto nella struttura formata da aneddoti umoristici, infarciti da melodramma, satira e ironia. La forza centrifuga della trama rende lo spaesamento dell’esperienza dei migranti che vagano per il labirinto londinese. Anche per loro la frontiera è quella invisibile che divide i bianchi dai neri. Eppure cercano di fare un passo oltre la linea – uno step across the line per riprendere ancora Rushdie – cercano di affermarsi, in un modo o nell’altro, nel tessuto sociale. Tanty, per esempio, riesce a convincere un commerciante a fare credito, proprio come si usava in Jamaica.
Questa affermazione avviene anche per via linguistica, contaminando l’inglese standard con colori diversi. The Lonely Londoners è scritto tutto in una forma creola di inglese che cerca di mimare la parlata dei suoi personaggi tanto nelle parti del narratore che nel dialogato.
È soprattutto attraverso la lingua che gli scrittori hanno tentato di attraversare e combattere le frontiere: «la sfida linguistica è un riflesso delle altre sfide che si trovano nel mondo reale» scrive Rushdie in Imaginary Homelands. Il romanziere Martin Amis, in una intervista del 1995, parlando del romanzo inglese, ha dichiarato: «sono quelli che chiamiamo gli scrittori del Commonwealth, il vecchio Impero. E hanno avuto un effetto enorme sulla letteratura inglese. Ci hanno liberato e hanno portato colore e diversità in quella che era un’area grigia». Ed è un fatto che se i primi scrittori migranti erano influenzati dalla letteratura inglese e la rielaboravano attraverso le loro più eterogenee esperienze culturali, ora la tendenza si è opposta: la letteratura inglese guarda sempre di più a quelli che molti chiamano – forse un po’ semplicisticamente – i Black Britons: Timothy Mo, Ben Okri, Amryl Johnson e Salman Rushdie, per fare solo alcuni nomi. The Empire Writes Back, così ha definito Rushdie questa tendenza, scimmiottando il titolo di un capitolo della saga di Star Wars.
Con almeno due generazioni di scrittori, artisti e musicisti, dei passi oltre la frontiera sono stati fatti, ma il cammino è ancora molto lungo. Il mondo messo in scena da Denti Bianchi di Zadie Smith lo testimonia bene, ma in fondo basta semplicemente leggere il giornale o guardarsi intorno. Nel bellissimo romanzo della Smith il mondo multiculturale è dato per scontato, eppure ci sono delle barriere che i personaggi si auto creano quasi per istinto di conservazione della propria cultura: per questo Samad vuole che i suoi figli crescano come dei veri pakistani pur essendo a Londra, nella vana speranza che la cultura inglese non li scalfisca minimamente. Per questo la signora Chalfen chiede a Millat da dove viene, e quando Millat risponde “Londra”, la signora insiste: «da dove vieni, davvero?». Senza rendersi conto che Millat è londinese quanto lei.
Non ci resta allora che far proprio il monito e l’augurio di Rushdie. In uno dei romanzi di Saul Bellow, The Dean’s December, c’è una scena in cui un cane abbaia: «For God’s sake, open the universe a little more» e siccome Bellow non sta davvero parlando di cani, e quella rabbia e quei desideri sono infondo umani, possiamo benissimo far nostre quelle parole.
Immagine di copertina di san_drino