Al suo secondo film dopo “L’isola dei diamanti” – lavori passati entrambi al Festival di Cannes – il regista francese di origini cambogiane Davy Chou racconta qui la sfaccettata vicenda di una ragazza adottata da piccolissima, che si ritrova nel paese dov’è nata ma in cui mai ha vissuto. A Seoul vuol riscoprire le sue radici, incontrare i genitori biologici, forse trovare un senso all’esistenza. Riuscirà a comprendere che per riempire il vuoto del suo passato dovrà percorrere una strada complessa
Freddie, protagonista di Ritorno a Seoul di Davy Chou, ha venticinque anni e non parla coreano. Abbandonata dai suoi genitori biologici in un orfanotrofio di Seoul, è stata adottata quando aveva pochi mesi di vita ed è cresciuta in Francia. Amorevolmente accudita dai suoi genitori adottivi, sicura di sé e curiosa del mondo, non ha mai pensato alle sue origini, fino al giorno in cui, per un caso fortuito (un volo per Tokyo cancellato all’ultimo momento) si ritrova a Seoul. E il richiamo delle radici d’improvviso si fa impellente, semplicemente ineludibile. Freddie non lo vorrebbe, all’inizio, ma da un certo punto in poi non può proprio farne a meno: deve andare a cercare suo padre e sua madre, deve scoprire i loro volti, le loro motivazioni, giuste o sbagliate che siano.
Troverà un padre logorroico e alcolizzato e una madre fuggitiva, un mondo respingente eppure affascinante, una lingua sconosciuta tutta da scoprire. Una ricerca destinata a durare anni e a trasformarsi in una sorta di odissea infelice e gloriosa, costellata di atti mancati e desideri perduti, parole e silenzi, amori e disamori. Freddie troverà in Corea qualcosa che somiglia a un senso, ma finirà col capire che il vuoto non è uno spazio che semplicemente si riempie, è piuttosto un processo, una strada da percorrere, uno sguardo da coltivare. In attesa di trovare risposte e forse, un giorno, imparare l’arte sottile e preziosa della pazienza. E, perché no, della speranza.
Ritorno a Seoul è un film enigmatico e fascinoso, costruito come un labirinto di luci e ombre, una spirale ossessiva che si nutre di emozioni, sentimenti e paure, e fa i conti con la disperazione, lo stordimento, la disillusione. Un cinema che sceglie la cifra del minimalismo, si tiene alla larga da ogni forma di retorica, cesella ogni immagine con rigore e coraggio, senza inseguire la facile commozione, senza mai stringere l’inquadratura in un’algida e inerte freddezza. Francese di origini cambogiane, al suo secondo lungometraggio, passato come L’isola dei diamanti (2016) al Festival di Cannes, Davy Chou ha scelto la strada di un cinema ipnotico e disturbante, capace di raccontare di fughe impossibili e identità perdute. Forse per sempre.
Ritorno a Seoul, di Davy Chou, con Ji-min Park, Emeline Briffaud, Lim Cheol-Hyun, Louis-Do de Lencquesaing