Ben fatto, ben fotografato, “Fury” di David Ayer non esce dai clichè del buon soldato e della giusta guerra Made in Usa. Lo salva la buona compagnia d’attori
Ci sono due modi di raccontare la guerra al cinema: quello degli americani, e quello di tutti gli altri. Per gli altri la guerra è soltanto cattiva, per gli americani ha un cattivo ben individuabile, e dunque un eroe destinato a sconfiggerlo. Per gli altri la guerra è soltanto brutta, per gli americani è brutta ma giustificabile e necessaria. È un rito d’iniziazione, dal machismo seducente, per il ragazzo che diventa uomo imbracciando il mitra e guadagnandosi il rispetto della truppa.
Sperare che Fury di David Ayer, nelle sale italiane dal 3 giugno, cercasse di percorrere altre strade sarebbe stata pura utopia. Innanzitutto perché il secondo conflitto mondiale, col suo gioco delle parti definito e indiscutibile, ben si presta all’esaltazione retorica del combattente per una causa universalmente riconosciuta. E poi perché Ayer, regista e sceneggiatore, ha alle spalle un curriculum che alterna discrete prove di scrittura (Training Day, Harsh Times, End of Watch) ad action movie duri e puri (Fast And Furious, S.W.A.T., Sabotage) all’insegna del cameratismo virile più sfrenato.
Eppure, senza scomodare mostri sacri (forse anche troppo) come Salvate il soldato Ryan, questa sorta di remake del fulleriano Il grande Uno rosso, visto dallo spioncino di un carro armato qualche merito ce l’ha: una fotografia accattivante, giocata su toni di grigio già visti in Band of Brothers, a descrivere l’ultimo, sporco rantolo di una guerra ormai esausta, una regia tutto sommato sobria, almeno per tre quarti del film, uno script capace di alternare con abilità le poche scene d’azione a un’efficace presentazione di atmosfere e personaggi.
Peccato che il tutto finisca per sbracare in una difesa finale del “fortino” (perché il carro armato “è casa”, insegna Brad Pitt all’imberbe, impacciata recluta sconvolta dagli orrori della guerra) degna del peggiore dei western, contro un esercito di tedeschi spietato sì, ma abbastanza educato da attaccare in fila indiana e a intervalli regolari. In realtà a reggere il forte, ben più di una sceneggiatura scontata e claudicante, è piuttosto l’ottima interpretazione di un cast piccolo ma assai ben assortito, con un buon Brad Pitt a capitanare la squadra composta dalla star di Transformers (ma anche di Wall Street 2 e Nymphomaniac) Shia LaBeouf, dai “veterani” Jon Bernthal (già visto in elmetto e uniforme nella miniserie The Pacific) e Michael Peña (arruolato in Leoni per Agnelli, World Invasion e End of Watch) e dal giovane Logan Lerman, eroe in fieri e vero sguardo del pubblico sull’intera vicenda.
In definitiva, Fury è un discreto lavoro di squadra (come la guerra del resto, sembra dire Ayer), che non aggiunge nulla alla sempre più traballante retorica del conflitto a stelle e strisce. È un’altra tacca al fucile per gli amanti del genere, con una scena memorabile, l’inseguimento-scontro con l’indistruttibile Tiger tedesco e una morale ambigua al cui confronto il Clint Eastwood di Flags Of Our Fathers/Letters from Iwo Jima pare un’icona della non violenza. In attesa della prossima opera bellica made in U.S.A., che sappia magari andare un po’ più in là del comodo ritornello della guerra giusta, raccontandoci davvero qualcosa di nuovo.
Fury di David Ayer, con Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña, Jon Bernthal