Il quarto consiglio per chi vuole scrivere lo rubiamo a Gabo, grandissimo. Sapeva insistere Gabriel Garcia Marquez, senza pensare né ai soldi né alla gloria: voleva scrivere buoni romanzi per essere letto, da tanti. C’è riuscito, sembra…
Messico 1965. Sulla strada per Acapulco il trentottenne reporter colombiano Gabriel Garcia Marquez, primogenito di sedici figli, appassionato di cinema, amico di Fidel Castro e per questo sorvegliato dalla CIA, ferma improvvisamente la sua Opel, guarda negli occhi la moglie Mercedes, intercetta nello specchietto retrovisore gli sguardi stupefatti dei figli Rodrigo e Gonzalo e dice: «Niente mare, ci andiamo l’anno prossimo, mi spiace». Poi rimette in moto, fa inversione, torna indietro, si chiude in casa e scrive Cent’anni di solitudine.
Così la leggenda. Mercedes intanto si occupa della parte pratica: affitto, spesa, scuola (qualcuno dovrà ben farlo). E se le 378 pagine di questa straordinaria saga familiare, a leggerle tutte, vi sono sembrate tante, sappiate comunque che è più breve di quanto Gabo aveva progettato: «Ho dovuto eliminare un’intera generazione perché non avevo soldi – dichiarerà molti anni dopo in una bella intervista a Rodolfo Braceli – Mi accorsi che con quel libro non riuscivamo a reggere oltre, perché la casa ci stava crollando addosso. Mia moglie Mercedes stava diventando matta: diciotto mesi incollato alla sedia. Ci impegnammo perfino la macchina, tutto. Doveva soldi perfino al prete».
Santa Mercedes! E mica solo per quei diciotto mesi di minestre allungate e rammendi. Santa proprio per la Fede: il suo giovane e fascinoso marito aveva sì già scritto cinque libri, ma quei romanzi non li aveva letti quasi nessuno. Cent’anni di solitudine comunque piacque assai a un editore argentino. «Ne tiriamo ottomila copie», sentenziò. Questo è matto, devono aver pensato i coniugi Marquez, visto che i libri precedenti non avevano superato le settecento. Ma aveva ragione lui: in capo a una settimana, a Buenos Aires, di Cent’anni di solitudine non se ne trovava più una copia. Il resto è storia della letteratura.
Quindi? Quindi lo scrittore di successo INSISTE. Ignora i fallimenti, le mancate vendite, le copie andate al macero. La regola è che, prima o poi, un vero scrittore di successo, avrà successo.
A riprova potrei citare qualche storiella edificante sul Difficile Inizio, oppure elencare puntigliosamente le lettere di rifiuto toccate a Grandi e Grandissimi o magari ricordare la depressione prePotter di J.K. Rowling o ancora la triste ma incoraggiante vicenda del Gattopardo rifiutato dalle Oscure Forze dell’Editoria e poi… (No, Tomasi di Lampedusa no. Come Kafka, divenne scrittore di successo dopo morto, e in questo manuale si lavora per scrittori che vorrebbero aver successo da vivi).
Resta da capire perché, dinanzi al fallimento conclamato, lo scrittore insista. Per denaro? Pensa forse che il suo impegno un giorno lo renderà ricco? Via, siamo seri, ci sono investimenti – anche legali – meno rischiosi. Per cosa lo fa, allora? Per la Gloria? (se preferite, potete usare un termine meno Ottocentesco, tipo Narcisismo o simili).
Consideriamo ancora Marquez. Nel 1982 arriva il Nobel. Quindici anni dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine, il mondo intero stacca un bell’assegno, gli batte una mano sulla spalla e gli dice: «Sei un grande scrittore, Gabo. Sei partito da un angolo sperduto e l’hai fatto diventare casa nostra. Adesso siamo tutti di Macondo. Tu, rilassati. Ce l’hai fatta. Di più non puoi avere. Goditi la vita».
E lui? Si è di nuovo chiuso in casa. Magari non subito, ma abbastanza presto. Si è rimesso al tavolino, ha penato sull’incipit, ha abbozzato i personaggi, è impazzito per trovare la parola giusta, il ritmo, ha scritto, limato, riscritto, riscritto e, tre anni dopo il Nobel, noi abbiamo avuto L’amore ai tempi del colera.
La meraviglia di questo romanzo sbocciato dopo la massima onorificenza è la prova provata che Gabo, della Gloria, se ne infischiava. O comunque non era quello il carburante. Quando tutto va male, quando da impegnare è rimasta solo la sedia, il tavolo e la macchina da scrivere, il giovane Garcia Marquez non HA INSISTITO per la Gloria. Perché allora?
Il suo amico e scrittore Carlos Fuentes dice che Gabo è come Dickens, scrive per essere amato. Bellissima risposta. Io, da lettrice, gli voglio un gran bene. Aggiungo però un concetto meno poetico: Gabo scrive per essere letto. Banale? Prendete un’altra celeberrima dichiarazione dell’amico di Fidel: «Io penso che il nostro contributo, perché l’America Latina abbia una vita migliore, non sarà efficace se scriviamo romanzi benintenzionati che nessuno legge, ma lo sarà piuttosto se scriviamo buoni romanzi». (Sostituite America Latina con mondo: «Io penso che il nostro contributo, perché il mondo abbia una vita migliore ecc…». Il senso non cambia, no?).
Concentratevi ora su quei romanzi benintenzionati che nessuno legge. Lo so, “benintenzionati” è un aggettivo strepitoso. Spazza via in un colpo una montagna di robaccia circolante anche ora che il realismo socialista con cui ce l’aveva Marquez non va più di moda.
Ma fermarsi all’aggettivo fa perdere di vista il punto. Il punto è: “che nessuno legge”. Dimenticatevi soldi e Gloria: lo scrittore di successo vuole essere letto. Alcuni, come Marquez, pensano addirittura che la Rivoluzione sia questa cosa qui: fare buoni romanzi che tutti leggono. Alcuni pensano che la Letteratura possa persino cambiare il mondo, pensa un po’.
MORALE: che poi, se sei uno scrittore, del tuo fallimento fai Letteratura. Leggete qui il discorso di Rowling ai laureati di Harward. Non so se cambierà il mondo. A me però, ogni volta che lo leggo, cambia un po’ la vita.