Il piano di Liguori musicista contro i poteri

In Cinema, Musica

La Milano del jazz e della politica nel film documento di Valerio Finessi: una vita tra cultura e impegno, dal Conservatorio all’Ambrogino, via 68 e dintorni

Non conoscevo Gaetano Liguori prima di aver visto il documentario che gli ha dedicato Valerio Finessi, Gaetano Liguori – Una Storia Jazz, racconto biografico che ne ripercorre l’esistenza attraverso le sue opere, fino al riconoscimento nel 2013 della massima benemerenza civica del comune di Milano, l’Ambrogino d’oro. Un pianista jazz che, attraverso la sua musica, ha vissuto da protagonista per decenni nel capoluogo lombardo, inesauribile fonte d’ispirazione. Grazie a immagini d’epoca, interviste e tanta musica, scorrono veloci gli 80 minuti di un film che utilizza come pretesto la storia di un singolo per narrare la metamorfosi di un luogo e dei suoi abitanti, un saggio sul costume e sull’identità dei cittadini milanesi, non banale e (a tratti) molto approfondito.

Tutto ha inizio al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, scuola che offrì al protagonista (figlio di un batterista del sud emigrato) il primo approccio canonico con il pianoforte. Proprio dal curioso rapporto genitore-figlio nasce il viaggio in una Milano fatta di sacrifici e discriminazioni, quartieri periferici in cui i sogni si infrangevano e, raramente, prendevano slancio in minuscoli cortili alberati. Il regista esamina l’ambiente e la formazione del protagonista per capire cosa scatenò la successiva ribellione: Liguori infatti inizia presto a pigiare i tasti con estrosa libertà, sperimentando controcorrente il così detto free jazz tanto in voga oltre oceano.

Un impegno che presto travalica le note e inevitabilmente (per il musicista) sfocia nella politica in uno dei periodi più caldi della storia italiana. Le lotte studentesche fervono e Liguori non ha paura di schierarsi e intitolare un proprio brano Cile libero, Cile rosso, dimostrazione di coraggio e soprattutto della volontà di utilizzare la musica non per estraniarsi dal contesto civile, ma al contrario per starci dentro.

Una lunga testimonianza che lascia una traccia al di là della tecnica con cui è raccontata, a tratti troppo rispettosa del soggetto. Un montaggio semplice, sicuramente ritmato, che però resta troppo appeso all’oggettività dello sguardo, evitando così l’aneddotica ma incappando in un certo plasticismo della messa in scena. Nel complesso però, potrebbe esser giusta la scelta di bilanciare lo sperimentalismo dei suoni con un’estrema pulizia dell’immagine, e di conseguenza della costruzione del film.

Sarebbe banale definire questo artista un personaggio che fa politica attraverso la musica. E il lavoro di Finessi consiste proprio nel dare una nuova chiave di lettura e svelare i segreti di un uomo che è espressione e simbolo di una società che ha vissuto grosse crisi (come quella post ’70), ma ha cercato ispirazione nelle battaglie altrui (in Eritrea, Senegal, Sahara, Amazzonia e Nicaragua, da Gerusalemme e Sarajevo). Ma che alla fine è tornato, cambiato nell’animo e speranzoso di trovare nella sua città (e nei suoi giovani studenti del Conservatorio) nuova linfa vitale per i propri pezzi. Una pellicola capace di lasciare il segno anche in chi, come me, ora ascolta per la prima volta il trombettista jazz Chet Baker in un live al Capolinea di Milano.

Foto: Gaetano Liguori

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