Il cantante statunitense, nel suo nuovo album, continua a sperimentare sonorità elettriche intrise di suggestioni gotiche
“Gargoyle perched on gothic spire”. Se esiste un artista nel mondo musicale che può scegliere di dedicare un disco a una delle icone gotiche per eccellenza, non può che essere Mark Lanegan. È uscito il 28 aprile per Heavenly Recordings il suo ultimo disco, Gargoyle, ed è un album piacevole e sorprendente ad ogni ascolto, come spesso accade per i lavori di una delle voci più caratteristiche della musica rock alternativa.
La carriera dell’ex frontman degli Screaming Trees è costellata di molteplici collaborazioni con una schiera di musicisti di varia provenienza che hanno saputo valorizzare la sua voce baritonale. Dagli esordi nella scena musicale di Seattle negli anni Ottanta fino ad oggi, Lanegan è apparso accanto ad una moltitudine di artisti, tra i quali si trovano nomi come Kurt Cobain e Kris Novoselic, i Mad Season di Layne Staley e Mike McCready, i Queens of the Stone Age, PJ Harvey, Isobel Campbell, Moby e molti altri. Gargoyle, da questo punto di vista, non si discosta affatto da questa tradizione di featuring illustri: Jack Irons (Red Hot Chili Peppers, Eleven, Pearl Jam) alla batteria, Martyn Lenoble (Porno for Pyros, Jane’s Addiction, Soulsavers) al basso, la fidanzata Shelley Brien e Josh Homme (Kyuss, QOTSA) alle seconde voci, Greg Dulli (The Afghan Whigs) e Duke Garwood alle chitarre. Il disco è stato scritto in collaborazione con Rob Marshall e Alain Johannes (Eleven, QOTSA), che veste anche i panni del produttore. Del resto lo stesso Lanegan afferma che «uno dei modi per rimanere interessato alla creazione di musica è la collaborazione con altre persone: quando vedo le cose dal punto di vista di qualcun altro è più entusiasmante di quando ho a disposizione solo i miei strumenti».
Gargoyle prosegue sulla strada tracciata dai precedenti Blues Funeral (2012) e Phantom Radio (2014), non a caso entrambi prodotti da Johannes: Lanegan continua ad esplorare sonorità elettroniche permeate da un’atmosfera gotica che solo la sua voce sa dare, graffiante come un tiro di sigaretta dopo un bicchiere di whiskey e, al tempo stesso, rassicurante come un sussurro nell’orecchio nel silenzio della notte. Il disco si apre con il basso deciso di Death’s Head Tattoo, che dà subito forma all’equilibrio che sostiene tutto il disco e introduce alle sonorità che ormai da cinque anni caratterizzano i lavori solistici di Mark Lanegan. Segue a ruota il singolo Nocturne, in cui attorno a un cantato alla Leonard Cohen risuonano in lontananza synth e chitarre distorte.
Gargoyle, come detto, ha molte anime e molti volti: la ricerca musicale di Mark Lanegan trasporta il krautrock anni Settanta e l’elettronica d’oltremanica anni Ottanta nell’arsura di un deserto, a metà tra le radici grunge e le derive alt-rock che hanno caratterizzato gran parte della sua produzione musicale, ma non mancano brani in cui questo equilibrio si spezza oppure prende strade inaspettate. Così convivono brani privi di batteria come Blue Blue Sea o Sister, in cui la voce di Lanegan si stende su un letto di synth, ballate commoventi come Goodbye to Beauty¸ che non sfigurerebbe in un album degli U2, e un brano ritmato e quasi marciante come Emperor, impreziosita dai cori di Josh Homme.
Merita senz’altro una menzione il secondo singolo estratto dall’album, Beehive, brano carico di chitarre “vecchio stile” per il quale è stato girato un videoclip diretto da Zhang+Night: un ritratto intimo e decadente di una coppia di vampiri che decide di smettere di cibarsi di sangue e di uscire a divertirsi, tra gli sguardi diffidenti della gente e la minaccia incombente del sole che sorge. Il tutto con quell’atmosfera quasi nostalgica e consapevole della propria (triste) condizione che avvolge così tanta parte della produzione musicale di Mark Lanegan.
Eppure, per un artista cupo e ombroso come lui e per una voce così naturalmente oscura e solenne, Lanegan in Gargoyle sa esplorare sonorità più allegre, come nella finale Old Swan o nella stessa Beehive. È il segno di una maturità compositiva, raggiunta negli ultimi anni: non è un caso che dal 2012, anno di uscita di Blues Funeral, sette anni dopo l’album solista precedente, Mark Lanegan abbia avuto una continuità creativa mai così florida prima d’ora. “Better the devil you know / than the one that you don’t”, dice Lanegan nel brano d’apertura, ma ad un ascolto attento sono proprio le novità, a livello melodico e a livello strumentale, a sorprendere. E a 52 anni, dopo oltre trent’anni di carriera, non è ancora tempo di smettere di stupire.
Mark Lanegan Gargoyle (Heavenly Recordings)