Il violinista assieme a Chailly e alla Filarmonica della Scala conquista i giovani con un concerto di classica
David Garrett è l’ideale da cui tutti i concertisti contemporanei dovrebbero trarre ispirazione. Provocazione? Forse, ma neanche troppo. Piazza del Duomo sabato 30 era gremita di giovani e non era la serata di Radio Italia Live: età media decisamente sotto i 30, una folla di ragazzi in piedi in trepida attesa del “Violinista del diavolo” accompagnato dall’ Orchestra filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly.
Non so quanti di loro conoscessero o avrebbero mai ascoltato in vita loro il concerto in sol minore op. 26 di Max Bruch. Non so quanti alla scritta “Rossini, ouverture dal Guglielmo Tell” abbiano associato il famoso galop utilizzato in innumerevoli campagne pubblicitarie.
Garrett, come Lang Lang, è un fenomeno innanzitutto per questo: calamita che attira un pubblico giovane, possibile anello di congiunzione tra una generazione e un patrimonio culturale dal valore inestimabile.
E questo potere non è dettato solo da un’operazione di marketing ben studiata o da un bel viso che spopola tra le ragazzine. Il trentaquattrenne ha colto il punto: la necessità di ripensare la figura del concerto pubblico e del concertista.
A partire dall’abbigliamento. Stanchi del frac (che indossa comunque a pennello il sessantaduenne Chailly) o peggio dell’outfit da becchino che vuole l’artista vestito totalmente di nero, il nostro si presenta in jeans scuri, t-shirt e giacca. Nient’affatto dissacrante, è elegante ma nello stesso tempo più vicino all’uditorio, capace di mettere a proprio agio anche il ragazzetto con il panino di McDonald’s in mano.
Lo stesso ragazzetto che nel bel mezzo del primo movimento di Bruch si gira verso di me con occhi sbalorditi di fronte ai vertiginosi voli intrapresi da Garrett col suo violino. Ma è anche il volto proiettato sul megaschermo che lo impressiona. Un virtuosismo di altissimo livello associato a uno sguardo divertito, che fa trasparire passione vera. Elemento secondario? Sicuramente, ma solo per un addetto ai lavori.
C’è da dire che il contesto aiuta. Fuori dalle mura di un teatro buio e dalla convenzione del silenzio assoluto in sala, l’orchestra stessa sembra come liberata da un fardello. Il suono sotto la bacchetta di Chailly è imperiale nell’Ouverture Accademica di Brahms che apre il concerto, diventa appassionato con Garrett fino a sfociare nel nazionalpopolare, da “capodanno estivo”, sulle note delle applauditissime ouverture di Rossini e Verdi (da I vespri siciliani).
Il finale è una scenetta, anzi due. Se nel Carnevale di Venezia Chailly, dopo aver educatamente salutato, si defila per lasciare l’orchestra e il violinista tedesco a loro stessi, quando sono già passati anche i titoli di coda ecco di nuovo Garrett sul palco che intona Smooth criminal. Ça va sans dire, pubblico in visibilio.
La domanda allora sorge spontanea: se per avvicinare nuovo pubblico alla musica classica bisogna suonare nella stessa serata Brahms e Michael Jackson, qual è il problema?
Foto di: Filarmonica/G. Hanninen