Ha appena chiuso, a Palazzo della Ragione, una grande mostra che raccontava quarant’anni di attività di Giovanni Gastel, il più famoso fotografo italiano di moda (e non solo). Con lui abbiamo fatto un bilancio dell’esposizione. Ci ha raccontato della sua infanzia dorata, di come si è bruscamente interrotta, dei suoi progetti per i prossimi dieci anni. E ancora: il suo rapporto con la fama e quella volta che ha fotografato Matteo Renzi come un papa.
40 anni in una mostra. Anzi, 40 anni in un paio di secondi, se moltiplichiamo per 250 – numero delle opere esposte – il valore di 1/125 di secondo, cioè il tempo medio di esposizione di una fotografia secondo Giovanni Gastel (1955). Sapendo quanto Gastel sia ossessionato dal tempo, che per lui esiste solo come presente, perché verso passato e futuro non nutre particolari velleità, gli chiedo se ci avesse mai pensato. «No, ma la cosa mi diverte molto».
La mostra, che portava il suo nome e che ancora una volta è stata curata da Germano Celant – la cui collaborazione con Gastel risale alla prima monografica in Triennale nel 1997 – e allestita su progetto dello studio Lissoni, si è appena conclusa, dopo quasi due mesi di programmazione e, insomma, è tempo di bilanci. Pare sia stata un successo: a grande richiesta di pubblico Gastel ha raggiunto diverse volte Palazzo della Ragione per raccontare ai visitatori quattro decadi di carriera. E, in generale, anche sessant’anni di vita privata, visto che accanto alle installazioni fotografiche, in un viaggio cronologico alla scoperta dell’uomo e non solo dell’autore, c’erano teche di vetro affollate di ricordi di famiglia (discendente dei Visconti e degli Erba), appunti, vecchi strumenti di lavoro, disegni, copertine di giornali, paginate d’interviste e di servizi fotografici, tra i quali veniva naturale perdersi a curiosare.
«Questa volta è stata molto richiesta la mia presenza, al di là delle mie opere. Mi sembra ci sia ormai uno spostamento dell’interesse, che una volta era solo per la fotografia. Ora sta nascendo anche nei confronti degli stessi fotografi: un fenomeno relativamente nuovo». E un obiettivo che Gastel si era proposto in qualità di presidente Afip (Associazione fotografi italiani professionisti), con l’organizzazione per esempio delle cosiddette Lectiones magistrales, occasione per fotografi e fotografe dalla lunga carriera di raccontare se stessi e il proprio lavoro al pubblico. «Un modo per far capire che anche conoscere chi produce l’immagine è importante: non indispensabile, ma interessante».
Come ha vissuto Gastel, che l’anno scorso ha anche pubblicato la propria autobiografia, il compito di condensare in una selezione relativamente piccola 40 anni di incessante produzione? «In un primo momento con grande gioia, ma anche con un po’ di vertigine… Per mantenere per tanti anni un buon livello, ho dovuto adoperare alcuni meccanismi psicologici». È assolutamente convinto di quanto ripete spesso: «Che tutto quello che ho fatto non certifica niente e che quello che farò è aleatorio; che il servizio fotografico che realizzo oggi è per me il centro del mondo, l’unica occasione che ho nella vita per dimostrare qualcosa a me stesso e agli altri… In qualche modo ho sempre escluso il passato. Questa mostra mi ha costretto ad andare in profondità», persino alle sue foto di bambino e ragazzino, di quando aveva 14-15 anni.
La vertigine è arrivata per Gastel quando si è reso conto di quanto effettivamente avesse prodotto. «In parte lo sapevo, me ne ero accorto con la prima mostra curata da Germano nel 1997. Ma questa volta, attraverso il suo lavoro e quello di Chiara [Spangaro], ho dovuto ri-analizzare tutto il cammino». Un bellissimo cammino, riconosce Gastel, ma che lo porta a dirsi: «Bene, la mia autobiografia l’ho scritta; la mostra dei quarant’anni è uscita. E adesso, cosa diavolo faccio?». Poi l’horror vacui passa, assicura Gastel: «Il meccanismo si reimpossessa di te e ricominci a produrre, come se non ci fossero né un futuro né un passato».
Gli chiedo uno sforzo di sintesi ulteriore: di condensare ogni decennio in un’immagine. Per il primo sceglie la sua prima copertina di Donna, quella su fondo rosso in cui la modella indossa tre colli colorati. «Lì è iniziato il mio vero percorso: prima pensavo avrei fotografato solo nature morte». Per il secondo, con il passaggio da Donna a Elle, la donna in rosso, in posa arcuata, che rappresenta bene il cambio di passo.
Per il terzo, con il passaggio a Vanity, la rappresentazione dell’Eleganza che doma la Volgarità (il maiale). Così come la poesia riflette la parte dolorosa dell’uomo, la fotografia esprime per Gastel l’aspirazione al meraviglioso e all’eleganza. Per la quarta decade, Chantelle Winnie, la modella canadese con la vitiligine che ha fatto di un apparente punto debole il suo punto di forza. «Quel servizio, insieme al progetto di Maschere e Spettri, rappresenta un mondo irreale, mio, personale. Ho cominciato a fare il fotografo proprio perché del mondo non capivo niente. Delle Br, dei morti, delle bombe dei neri, dell’inflazione al 20%. Ero stato allevato dentro i giardini nell’idea della patria, della bandiera, dell’onore… Una volta aperto il cancello e guardato fuori ho detto loro: “Guardate che il mondo che c’è là fuori non c’entra un bel niente con quello che mi avete insegnato!“». E una volta lasciato il nido, tagliati i fondi da parte del padre, il diciassettenne Giovanni ha scelto di trasferirsi in uno scantinato, «Un buco schifoso dove ricreare un mondo minuscolo di cui capivo le regole, perché ero io a dettarle. La moda per fortuna ha amato questo approccio e mi ha subito reclutato: aveva bisogno di creare».
A proposito di poesia, altra parte della produzione di Giovanni, lo scorso giugno sulla sua pagina Facebook aveva pubblicato alcuni versi in cui si domandava:
[…]Quando ho perduto la vista luminosa dei vent’anni?
A quel tempo le cose erano sicure… […]
«Sai cosa succede? Che la vecchiaia involgarisce il pensiero che da giovani è molto puro. Questo mi ferisce un po’ ed è una cosa di cui credo scriverò ancora». Forse, azzardo, dipende dalla contaminazione continua cui si va incontro nel corso della vita. «In qualche modo penso che sia quello, insieme al leggero morbo che il tempo porta con sé. Assomiglia all’indebolimento lento delle ossa, l’osteoporosi. È come un piccolo germe. Io lo combatto molto, quindi in me poi non vince».
Più recente, pubblicata a fine ottobre, quest’altra poesia, che ben dipinge la sensazione di malinconia che accompagna sempre Giovanni.
Passavamo lunghi pomeriggi
guardando le formiche arrampicarsi sul muro.
Erano i giorni del nostro mondo chiuso.
Gli alberi altissimi sembravano eterni nel giardino
e noi con loro.
Poi siamo usciti nel mondo vero
e la vita ci è caduta addosso.
Un volo veloce
e già percepiamo il confine
il limite così vicino.
Ma c’è ancora vita
in questa vita
e gioia e speranza.
Che grande fatica il ricordo.
Cerco aiuto
ma tutti sembrano così lontani.Milano 2016
Tanti interpretano la persona nei versi come una sua fidanzata. «Si tratta di mia sorella, la più vicina per età. Ho avuto questo flash di me e di lei, con la sua treccia bionda, occupati a guardare le formiche… Poi, di colpo, ci è cascato il mondo addosso». Giovanni abbassa il tono, indugia e abbandona per un attimo il sorriso, gli occhi appoggiati sopra un velo di tristezza. «È dipeso dall’essere stati allevati in luoghi chiusi e realtà protette, ma credo sia un sentimento universale: veniamo sempre protetti da qualcosa nell’infanzia e poi scaraventati nel mondo senza preavviso. Oppure siamo noi stessi a voler uscire, non sapendo cosa c’è fuori e anzi, bramanti una specie di libertà che in realtà si rivela la massima delle prigioni».
Come combattere questo spleen? «A dirti la verità è una condizione che mi accompagna sempre: anche in questo momento sono profondamente malinconico. Per cui non faccio niente, continuo a vivere. Ma non è un sentimento drammatico, quasi dolce, piuttosto». Raccogliendo tutte le sue poesie, che scrive fin dalle elementari, si è imbattuto nel verso: “è dolce questa malinconia avvolgente”. «Capita anche quando vado in chiesa, sai. Finalmente – e mentre parla apre le braccia e fa come per abbandonarsi all’indietro – sento di potermi lasciare andare e rilassare, mi sento come cadere e sostenere insieme».
Quella malinconia, quando Gio, come si firma anche sui social network, è circondato da persone è difficile da scorgere. Resta nascosta da una gentilezza sincera e delicata nei confronti di chi lo cerca e gli domanda. Su Facebook non è raro che ingaggi discussioni con chi commenta i post condivisi sulla sua pagina ufficiale. «Quando riesco rispondo a quasi tutti. Ho una lista di persone che cercherò di vedere; a chi mi dice “So che non ci incontreremo mai” rispondo sempre “mica è impossibile”. Basta che uno venga nel mio studio, suoni il campanello, si presenti e si faccia offrire un caffè. Chissà perché la gente immagina che una persona, solo perché fa bene le sue fotografie, viva in un Olimpo irraggiungibile». E poi, dopo averci pensato un attimo, tenta una spiegazione. «Sai perché? Perché per molti il successo è una rivincita. L’ho sempre notato. Il bello del successo invece è che finalmente ti permette di rilassarti un po’: la gente ti vuol bene e ama quello che fai. Io lo vivo così, con una grande apertura verso il mondo». A chi lo vive come una rivincita nei confronti del mondo Gastel domanda: «Ti è andata bene, sei diventato famoso, che cosa puoi volere ancora? E quando mi si dice: “Lei ride sempre, è così allegro”, penso che alla fine – mentre lo dice, lontano da qualsiasi hubris e anzi, con molta umiltà e un pizzico di scaramanzia, fa le corna e tocca legno – mi è andato tutto bene. Se mi avessi chiesto, quando avevo 12 anni, come sarei stato a sessant’anni nella migliore delle mie ipotesi, mi sarei immaginato esattamente così come sono oggi. Ma quanti sono quelli che possono dire la stessa cosa? E insieme, sono felicissimo. Dovrei anche essere incazzato? Sarò un po’ malinconico, ma incazzato mai!».
Gastel si è trovato a fronteggiare, di recente, una gran quantità di commenti ostili a causa della copertina scattata per Rolling Stone, quella che ha per protagonista il presidente del consiglio Matteo Renzi. «Nei suoi confronti ho notato da parte della gente un odio che non sembra tanto politico, quanto estetico. Ormai chi lo osteggia lo odia fisicamente. Tra le cose che mi hanno detto c’è stato persino un “Già che c’eri dovevi ucciderlo”! Si può dire tutto di Renzi, può risultare simpatico o antipatico, piacere o meno politicamente, ma non mi sembra di aver fotografato Pol Pot o Hitler». In ogni caso, per Gastel, che è stato da molti accusato per un presunto appoggio politico, si tratta solo del lavoro commissionato da una delle riviste con cui collabora, non di scatti per una campagna elettorale. In quei ritratti «non esprimo alcun giudizio politico o alcuna simpatia, quelli li tengo per me. Ho fatto una copertina, purtroppo l’ultima, di Marco [Pannella]: quel giorno ero un radicale e poi di colpo sono diventato democratico? Se dovessi fotografare Grillo sarei un grillino?». Come ha risposto a qualcuno su Facebook, «è come prendersela con un pittore di nature morte perché ti fanno schifo le mele. Che senso ha?». La sessione di ritratto con Renzi, che informalmente si è fatto dare del tu, è durata relativamente poco: «Lui è un po’ recitativo. Per evitare che i miei soggetti si mettano in posa chiedo sempre di fare qualche azione o gesto a loro scelta». In quell’intervallo di movimento capita spesso di trovare qualcosa di interessante. «Renzi ha portato le mani al viso. Quando ho scattato la fotografia che è diventata copertina aveva le mani a metà strada, aperte come un papa: è nato così il titolo “The young pop”, che ho trovato delizioso». Gastel avrebbe voluto una copertina con due immagini affiancate, una a rappresentare il sì, l’altra il no: «Mi sembrava divertente, ma per motivi tecnici – e di spazio – non era possibile».
Visto che abbiamo parlato di passato e di presente, chiedo a Gastel se c’è un ritratto che vorrebbe scattare nel 2017. «Mi piacerebbe portare avanti una ricerca organica, come quella che ho realizzato sulla musica», con le 100 facce per Rolling Stone. «Mi sto sempre più avvicinando a quel tipo di ricerca: preferisco scegliere un settore che appartiene alla vita reale e trasformarlo in racconto iconico e simbolico di quello stesso mondo». Mondo dell’arte, della danza, del teatro o del cinema, cioè quelli che più gli interessano e cui appartiene da quando ha 12 anni. Chiedo a Gastel di pensare ai prossimi 10 e di riassumerli in un flash, come ha dovuto fare con quelli messi in mostra. Come li vedi? «Divisi in giorni, amo il tempo reale. La mia adesione al presente è quella che mi salva: non riesco a considerare 10 anni. Quanto sono in giorni?». Circa 3650, qualcuno di più. «Ecco, vedo 3650 giorni».
Tutte le immagini sono pubblicate per gentile concessione di Giovanni Gastel.