La mostra su Gaugin al Mudec ha qualche problema di allestimento; ma soprattutto: che legame c’è tra la mostra e il museo che la contiene?
Gauguin. Racconti dal paradiso al Mudec si riduce, come tante altre mostre ormai, a un’occasione per vedere alcuni pezzi di qualità, rappresentativi della produzione di questo o quel pittore. Gli scotti da pagare sono l’allestimento faticoso, con cartellini sfalsati e illeggibili perché poco illuminati, e il percorso confuso, tanto che le guide trascinano i gruppi da un angolo all’altro delle sale per restituire la consequenzialità di un discorso logico.
A metà mostra una saletta con i divanetti permette di riposare le gambe stanche, mentre Filippo Timi interpreta – in un video che ha il sapore dell’esperimento modernista mal riuscito – lunghi estratti degli scritti di Gauguin, fortemente rielaborati. Nello stesso ambiente è stata relegata anche la cronologia della vita del pittore che risulta del tutto superflua a quel punto del percorso. Si rimane perplessi: è come il soprammobile regalato dalla nonna, che non si vorrebbe in casa ma si è obbligati a mettere in bella vista.
L’obiettivo dell’esposizione è quello di svelare il senso e le fonti, tra Bretagna e Polinesia, del primitivismo di Gauguin, sia da un punto di vista formale che concettuale. Ma il «vivace caleidoscopio» – la mostra è definita così dal suo stesso pannello introduttivo – non sembra conseguire il proprio scopo. I fili della trama si riordinano solamente nel catalogo, capace – questo sì – di chiarire le linee di analisi assunte dai curatori: Line Clausen Pedersen e Flemming Friborg, rispettivamente curatrice del Dipartimento di Arte Francese e Direttore della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen. Forse non si è voluto richiedere un impegno eccessivo al visitatore, semplificando problematiche che, se bene esposte, risultano invece interessanti.
Volendo soprassedere sui problemi espositivi o scientifici della mostra, emerge nuovamente quello che – l’avevamo già detto , e lo ripetiamo – sembra essere il vero problema del Mudec: all’apparenza non tanto un Museo del Comune di Milano quanto una scatola vuota, uno spazio espositivo ad uso e consumo del gruppo Sole24Ore. Così come Palazzo Reale si improvvisa per qualche mese dépendance dello Szépművészeti Múzeum di Budapest, il Mudec si trasforma nella casa di vacanze delle collezioni di tre musei di Copenhagen: la Ny Carlsberg Glyptotek, il Designmuseum Danmark e lo Statens Museum for Kunst, in tutto 53 pezzi sui 73 esposti.
Intendiamoci: nulla contro i gruppi editoriali o gli spazi espositivi in sé. Ma non possiamo fare a meno di chiederci cosa ci azzecchi in un Museo una mostra slegata dalle collezioni del padrone di casa. Se il Mudec non ha pezzi polinesiani o bretoni, allora a che pro ospitare un’esposizione che, a questo punto, sarebbe potuta stare qui come a Palazzo Reale o alle Scuderie del Quirinale? Se i pezzi invece ci sono, perché non esporli?
È un vero paradosso a fronte della mostra, estremamente interessante, di una parte relativamente limitata delle collezioni permanenti del museo. Il resto delle raccolte per ora si può visitare solo su appuntamento, a condizione di prenotare per un gruppo di almeno 15 persone.
Immagine di copertina: Paul Gauguin, Mahana no Atua (Giorno di Dio), 1894. © The Art Institute of Chicago