“Ho riletto tante volte questo racconto nel corso degli ultimi quarantacinque anni, e ogni volta cercavo di spiegare a me stesso e agli altri perché mi facesse quell’effetto. Ogni volta credevo di averlo scoperto, eppure ogni volta che riprendevo a rileggere mi ritrovavo come all’inizio, ancora prigioniero”: così Umberto Eco racconta la sua storia (d’amore) con “Sylvie”, il testo di Gérard de Nerval che fu uno dei libri fondativi per la sua biblioteca interiore. Oggi La Nave di Teseo lo ripubblica trasformandolo in un libro dentro a un libro: c’è la bellezza del racconto di Nerval, c’è il lavoro di Eco traduttore, ma c’è anche tutto il laboratorio interpretativo e di ragionamento intorno a un’opera magnetica.
Forse a qualcuno è capitato. Si prende dalla libreria un libro di cui non si conosce nulla; lo si legge; e da quell’incontro casuale, che si imprime definitivamente nella testa, si genera un punto di svolta per la propria vita. A Umberto Eco è successo all’età di vent’anni con un breve racconto di un autore francese in Italia non molto popolare: Gérard de Nerval. È piuttosto impressionante pensare che col passare degli anni, anche con la crescita di una biblioteca personale che vantava decine di migliaia di titoli, quel racconto abbia sempre mantenuto una posizione di privilegio.
Per Eco, Sylvie è stato un continuo oggetto di riflessione, tanto da diventare argomento di corsi universitari e modello per numerose riflessioni teoriche (per capire tutte le Sei passeggiate nei boschi narrativi la lettura è quasi presupposta). Ma non solo. Il fascino per questa storia si spinge a quella che forse è la più grande prova d’affetto che si può rendere a un libro: tradurlo. Nel 1999 esce per Einaudi la sua traduzione dell’opera, corredata anche di un ampio commento finale. Poche settimane fa La nave di Teseo decide di riproporla, non alterando sostanzialmente nulla dell’edizione precedente, ma rinnovando del tutto l’apparato grafico.
Sarebbe riduttivo prendere in considerazione solo l’opera di Nerval e sorvolare sulla sua singolare mediazione. Parte della bellezza del libro, che a distanza di venticinque anni si ripresenta ancora invariato, sta proprio nelle riflessioni formulate dal traduttore: quella presenza intermedia che rimane quasi sempre invisibile. Con questo non si vuole certo sostenere che il racconto di Nerval abbia valore solo in quanto trasmesso da Eco – sarebbe un’assurdità. Sylvie è una delle pietre miliari della letteratura francese moderna, tanto da influenzare uno scrittore come Proust; Nerval, pertanto, è in grado di difendersi da solo. Si può dire, però, che la nuova edizione del testo (così come quella del 1999) abbia una particolarità che la rende un prodotto tanto affascinante quanto inconsueto: il traduttore del libro allaccia un dialogo col proprio lettore, facendolo entrare nel proprio laboratorio, in cui c’è ancora traccia delle difficili scelte intraprese. Tuttavia, prima di tutto è giusto spendere qualche parola sul racconto.
La storia è narrata in prima persona da un uomo che professa subito il suo amore nei confronti di una donna, che inizialmente rimane nascosta. Si comincia così a profilare una classica storia d’amore, a tratti quasi banale: lui che ama lei e lei che non lo sa.
Io mi sentivo vivere in lei, ella viveva per me solo. Il suo sorriso mi colmava di una beatitudine infinita; la vibrazione della sua voce, così dolce e tuttavia così piena e sonora, mi faceva trasalire di gioia e d’amore. Ella aveva ai miei occhi tutte le perfezioni, ella appagava ogni mio entusiasmo, ogni mio capriccio.
Ma chi è lei? Ecco, si potrebbe dire che in questa domanda sta tutto il senso della narrazione; la forza dell’intreccio, infatti, non è tanto negli avvenimenti presentati, quanto nella forma attraverso cui il narratore mostra la risposta a quell’interrogativo. Nerval decide di scavare dentro la mente del protagonista spalancando al lettore una finestra sul suo passato, la cui struttura si riflette in un ordine degli avvenimenti che non è lineare, ma frammentario, ambiguo e sfuggente. Il passato urta così il presente, creando un effetto prismatico che attraverso la sovrapposizione dei piani temporali confonde la lettura; è quello che Eco definisce «effetto nebbia». Il protagonista si affida dunque a una dinamica che tuttavia risulta assai precaria: comprendere il passato per dare senso al presente e determinare così il futuro. Sembra però che la memoria sia un luogo umbratile (si spiega facilmente il fascino di Proust per Nerval), in cui prosperano delle parvenze confuse o, usando le parole dell’autore, dei «fantômes métaphysiques».
La lettura in realtà è molto più scorrevole di quello che si potrebbe pensare: il racconto si sviluppa attraverso un montaggio magistrale capace di disorientare, ma anche di intrappolare il lettore, che in poco tempo giunge alle righe finali del testo. Nerval riesce quindi ad allestire una vera e propria trappola, costituita da esche e insidie, a cui non ci si può sottrarre. Non è tuttavia così elementare capire le minuzie che compongono meccanismo; è a questo punto, dunque, che il commento di Eco si rivela molto efficace per una comprensione più profonda. Nella prima parte infatti viene offerto un resoconto dettagliato, composto da mappe, schemi e tabelle frutto di uno studio del testo lungo e intenso, attraverso cui ci si riesce a fare un’idea della complessità della scrittura di Nerval.
Nella seconda parte, invece, Eco, vestendo i panni non più del critico, ma del traduttore, tematizza alcune questioni e problematiche che ha riscontrato nel corso del lavoro, ricostruendo anche il percorso che lo ha portato a quell’esito finale.
Tradurre non significa solo trasporre da lingua a lingua, ma anche da cultura a cultura, e da secolo a secolo.
Che fare quando nel testo originale le parole generano assonanze o addirittura brevi versi? Che fare quando ci si imbatte in termini che non possiedono un vero e proprio corrispettivo? Che fare quando per tradurre letteralmente si deve ricorrere a espressioni che distruggono lo stile dell’autore? Si intuisce quindi che il mestiere del traduttore ha una componente molto più artistica e personale di quello che ci si potrebbe aspettare. È un’operazione ragionata costituita essenzialmente da sentieri diramati: perdere qualcosa per ottenere il più possibile. Naturalmente occorre un metodo:
Non fare dire al testo quello che non poteva voler dire, e solo perché la nostra lingua ci permette di dirlo.
La bellezza del lasciarsi guidare da Umberto Eco nel mondo di Sylvie sta nella consapevolezza che quel principio metodologico non è solo una chimera per ingenui, ma un’intenzione concreta, che si costruisce parola per parola.