Il famoso critico e curatore Germano Celant, nato a Genova nel 1940, ci ha lasciati, vittima illustre di questi tempi drammatici, per le complicazioni dovute al Corona Virus all’età di 80 anni. Fondatore e teorico del movimento dell’Arte povera, Senior curator al Salomon R. Guggenheim Museum di New York, curatore di mostre nei più importanti musei ed eventi del mondo, dal Centre Pompidou di Parigi alla Biennale di Venezia, fino alla direzione artistica della Fondazione Prada, Celant è stato uno dei più autorevoli, influenti e celebrati curatori del nostro tempo. Andrea Contin lo ricorda raccontandolo dal punto di vista di un artista.
Ci sono nomi che sono talmente radicati nella nostra cultura e nel nostro immaginario da non farci chiedere da dove vengano, che storia abbiano, come sono arrivati ad essere lì dove sono. Sono e basta. Uno di questi è stato per me quello di Germano Celant.
Ha fondato l’Arte Povera, e l’Arte Povera è stato il movimento artistico della seconda metà del Novecento più importante in Italia, e non solo in Italia. Punto.
Poi, certo, la sua attività a me contemporanea me lo ripresentava puntualmente, mostra dopo mostra, dalla Biennale del 1997 – quella che tra l’altro ha ridato vita alla pratica della performance, totalmente abbandonata nell’epoca post-AIDS – fino all’ultima che ho visto, la premiata “Post Zang Tumb Tuuum. Art Life Politics: Italia 1918–1943” alla Fondazione Prada di Milano, che mi sono permesso di criticare (qui) per la spettacolarizzazione enfatica, e a mio avviso gratuita, di un pensiero non abbastanza circostanziato e contestualizzato.
Ma neppure l’averne scritto, lo confesso, mi aveva spinto ad un approfondimento ulteriore del personaggio Celant. Mea culpa, sicuramente, ma anche suo merito, nell’aver raggiunto un tale livello di fama e autorevolezza da non far più sorgere, appunto, il bisogno di domandarsi chi lui fosse. E così la sua morte mi ha trovato impreparato. E mi lascia sgomento per le modalità.
Dopo aver sorriso per la buona sorte di Michelangelo Pistoletto, suo sodale nell’avventura dell’Arte Povera, la notizia della scomparsa di Celant arriva, a quasi fine quarantena, come una mazzata per il mondo dell’arte, anche se i media sembrano averla praticamente ignorata. Sta a noi allora andare col pensiero a quello che la contingenza sanitaria ci ha tolto, ma che lo sguardo lungo della storia conserverà per noi.
Trovare informazioni oggi è facile, basta scrivere un nome su Google e tutto appare, che sia Raffaello o l’Osvaldo Paniccia di Andrea Dipré. Ma così si perde il libero flusso del pensiero, quello capace di agganciare i contenuti secondo schemi precisi ma inafferrabili dall’algoritmo.
Vado allora in cerca nella memoria di tutti gli indizi disponibili per ricostuire, e mi accorgo che Germano Celant, in realtà, lo conosco benissimo.
Ricordo il mio primo incontro con l’Arte Povera grazie al monumento alla Resistenza e alla Liberazione di Jannis Kounellis nel cortile del Bo a Padova, edificio di un’Università che ha visto passare nelle sue sedi i più grandi artisti italiani della storia. Un muro di assi di legno slabbrate e sporche, accatastate con un ritmo incalzante di verticale e orizzontale, che poco piacque a molti ma che per me fu una folgorazione.
Comprai libri, guardai immagini, sperimantai quell’incontro nel mio lavoro di studente d’Accademia che, grazie a quel legname fradicio, ebbe una svolta. Incrociai il lavoro degli altri componenti il gruppo, da cui imparai il resto. Il momento presente in divenire da Pistoletto. Il rigore da Paolini. Il senso del magico da Pascali. La pura intelligenza da Boetti. E mi resi conto che da lì si poteva partire per andare ovunque, che fosse pittura o scultura, che fosse video, installazione o performance. Perché il denominatore comune di quegli artisti era nel nome che li accomunava: Arte povera, nei materiali e nell’attitudine.
Un nome ripreso dal teatro che allora mi affascinava per averlo scoperto così in sintonia con la mia ricerca degli inizi, il Teatro povero di Jerzy Grotowski. E dietro l’arte povera c’era Germano Celant.
Le cui parole, a quel punto, diventrono la conferma che anch’io, giovane artista nell’epoca dell’individualismo degli anni Novanta, avrei voluto provare il brivido dell’appartenenza a un Movimento, l’ultimo dei quali fu proprio l’Arte povera, per condividere la voglia di rottura, di presente e di realtà. Di cambiare il mondo, come ogni bravo giovane dovrebbe voler fare.
L’Arte, come diceva Celant, è uno specchio, e gli specchi non invecchiano perché l’immagine che riflettono non è mai la stessa ma è riflesso della vita in tempo reale, è contingenza, è fenomenologia. È il “reale dominio del nostro esserci”, presenza attiva nel proprio tempo che è prima di tutto un atto politico e che, come tale, resta vivo nelle azioni di chi lotta. Anche in quelle di chi, dopo questa epidemia che ci fa pensare a un punto di rottura tra il mondo del prima e quello del dopo, ricomincerà a farlo.