La dignità, la resistenza, le proteste, le raccoglitrici di gelsomini, i malandrini, il naufragio dello Stato. Quando il Sessantotto varcò l’Aspromonte, la Calabria era un mondo diverso, oggi sotterrato e dimenticato. Gioacchino Criaco gli restituisce parola in “La Maligredi”, potente romanzo di formazione.
C’è una storia della Calabria rimasta sconosciuta, volutamente sotterrata e che Gioacchino Criaco, già autore di Anime nere, racconta per Feltrinelli ne La maligredi, termine calabrese che definisce la brama del lupo che non si accontenta e invece di sbranare la pecora che gli basterebbe a sfamarsi, uccide tutto il gregge.
Il romanzo è ambientato negli anni ’70 ad Africo, paese natale dell’autore. Forte è la nostalgia degli abitanti più anziani per l’antico paese, un tempo situato sull’Aspromonte e poi trapiantato, dopo l’alluvione del ‘51, vicino al mare ma in un’area malsana e paludosa. Dimenticato da tutti, anche dallo Stato, non c’è nemmeno la stazione dei treni nel nuovo Africo (“sapevano che c’eravamo ma fingevano di non saperlo, ci concedevano solo un rallentamento che permetteva ai più giovani di salire e scendere con poca difficoltà”), costringendo i giovani a salire a bordo saltando o a recarsi alla stazione del paese successivo.
L’Aspromonte, chiamato anche Monte Aspro, è guardato con affetto dai vecchi del paese, che rimpiangono la vita precedente al trasferimento come un’età dell’Oro. Depositari della tradizione, gli anziani e i pastori tramandano le antiche storie e culti, come la ‘gnura Cata “che dietro ad ogni albero ci metteva un demone e sul greto di ogni torrente faceva vedere di spalle donne con capelli e corpi splendidi che poi si giravano a mostrare visi orrendi e bocche deformate da zanne sporgenti.”
Il nuovo Africo è costituito da caseggiati popolari chiamati “rughe”, ognuna delle quali ospitava “sedici alloggi per sedici famiglie, fossero composte di una persona o dieci” e in cui aleggia perennemente l’odore del “sugo finto”, il concentrato di pomodoro distribuito attraverso gli aiuti della Croce rossa: “una crema fra il rosso e il marrone”, “che doveva assomigliare al sugo di pomodoro ma non ci riusciva”, detestato da Nicolino, il protagonista, che all’inizio del romanzo ha quindici anni.
Suo padre in casa è assente, poiché lavora in Germania, come molti altri uomini di Africo, che hanno dovuto emigrare al nord a bordo del Pellaio, così viene chiamato il treno, in quanto, come il conciatore di pelli Micelotta, “passava casa per casa a prendersi la pelle del familiare da sacrificare”.
L’economia stenta ad avviarsi in tale situazione, favorita anche dai “malandrini”, che da questo stato di abbandono non hanno che da guadagnare, mantenendo i loro privilegi che fan sì che siano gli unici a potersi permettere di vivere da ‘gnuri, con le loro ville sulle colline nei luoghi assolati e salubri.
In questo clima di povertà, Nicolino con i suoi inseparabili compagni, Antonio e Filippo, marina spesso l’Istituto d’Agraria, trascorrendo le giornate al bar a bighellonare, finché, conosciuti dei ragazzi più grandi, trova con gli amici un modo per fare dei soldi, tanti ed in fretta, e per sentirsi “grande”. Ma pestare i piedi ai “malandrini” non è affare che possa passar liscio e i tre giovani si cacciano in un problema più grande di loro.
Ma La maligredi è anche un’accorata dichiarazione d’amore per le madri, le madri calabresi, coraggiose, forti, sole, ma sempre sorridenti e amorevoli: le madri-gelsomino, che per portare a casa qualche soldo venivano prelevate di notte, su dei camion, per andare a raccogliere i gelsomini nelle terre degli ‘gnuri venendo pagate a cottimo, per kilo di gelsomini raccolti. Sapendo che spesso venivano imbrogliate, queste donne avevano imparato che un kg corrispondeva a circa 40.000 gelsomini, tutti raccolti a mano, uno ad uno; si pensi che alcune “campionesse” riuscivano a raccogliere anche 5 kg di gelsomini a notte: circa 200.000 steli.
Papula, rosso e rivoluzionario, tenta di far uscire Africo e i suoi abitanti dalla “palude”, cercando di avviare un’economia, instaurando un forno e organizzando scioperi e proteste per ottenere alcuni diritti fondamentali per le gelsominaie: la domenica di riposo, turni di 8 ore, un salario minimo proporzionato alla mole di lavoro. La protesta si propaga per tutta la Calabria e sembra avere successo, ma la maligredi è in agguato e “quando arriva, spacca i paesi, le famiglie, fa dei fratelli tanti Caini e avvelena il sangue fino alla settima generazione.”
Lo Stato, soffocando le proteste, non fa che favorire la Mafia, in “un tempo in cui ancora tanti giudici dicevano che la mafia era il fumo di un delirio”. Una nota positiva è però la reazione degli abitanti della ruga, che, come una grande famiglia, proteggono i protagonisti rischiando in prima persona, come Giannino, l’anziano carabiniere in pensione, un personaggio che si rivela essere tra i più positivi.
Ma non è l’unico, sono molti infatti gli eroi del romanzo, oltre a Papula e Giannino, indimenticabile è la figura di Rocco, il giovane solitario e burbero, dai modi eccentrici ed originali, tornato ad Africo dopo esser stato via alcuni anni e proprietario di un bar in cui ha vietato l’accesso ai malandrini, azione coraggiosa, simbolo della sua integrità morale, che gli costerà non poco.
Questa realtà crudele e misera è al contempo anche meravigliosa e magica grazie alla trasfigurazione operata dal narratore-protagonista Nicolino, che sfuma spesso la sua narrazione in una atmosfera trasognata e sognante, che colora di divino una terra dolorosamente amata.
Se è vero che il linguaggio riflette il modo di vedere il mondo, la verità de La maligredi si esprime nella lingua calabrese, presente attraverso numerosi termini dialettali, come nella struttura delle frasi, che ricalcano in un certo modo la struttura del dialetto.
La maligredi è un romanzo di formazione, è un saggio di denuncia sociale, è un romanzo storico, una dichiarazione d’amore per le madri e per la terra calabrese, è un pianto disperato che dà voce ai molti, costretti dalla triste realtà mantenuta dalla mafia, ad emigrare dal proprio amato Aspromonte, come l’autore, emigrato per alcuni decenni e poi nostalgicamente tornato nella sua terra per combattere a suon di letteratura un mondo che avrebbe potuto essere diverso.