Fino al 5 dicembre, al Teatro Carcano va di scena il racconto. Calcagno, Pirrotta e Lo Cascio danno voce a Gilgamesh, da cui tutto deriva, e ne fanno pura parola
Lu cunto de li cunti. Vale la pena scomodare un altro testo capitale, e un’altra lingua di mare, archetipo
d’incontri e radici risalenti per sintetizzare il Gilgamesh, il racconto dei racconti; perché porta i semi di ogni narrazione che lo seguirà, da Omero alla Bibbia, e tutti li racchiude, in un tempo fuori dalla misura.
Sarebbe poco utile, infatti, rintracciare questa figura, sul crinale e dentro la sintesi tra divino ed umano, nelle fonti storiche dei regnanti sumeri. Lo si può credere di riconoscere, senz’altro. Ma la sua epica ha,
inevitabilmente, i connotati della leggenda fondativa. Se proprio si vuol ricorrere ad un ancoraggio possibile si deve ricorrere ad un luogo, la Mesopotamia, la lingua di terra tra il Tigri e l’Eufrate in cui si origina l’uomo stesso – e dunque, con esso – la sua voce per narrarsi e, raccontandosi, esistere.
Così come accade per gli dei e per gli eroi, il dispotico re dell’antica Uruk è l’archetipo della leggenda, e si
potrebbe sintetizzarne l’epica tramandata nei secoli, giocando a identificare rimandi, calci, citazioni. E a
maggior ragione diventa vero per la drammaturgia che ne trae Giovanni Calcagno, (che firma anche la
regia) Gilgamesh è l’epopea di colui che tutto vide, in scena fino al 5 dicembre al Teatro Carcano.
In Gilgamesh si assomma una teoria pressoché infinita di sovrani semidivini, che hanno in sé tutta la forza dell’umano ma si mantengono sempre devoti al divino. Ha la possanza di un Eracle e l’acume di Ulisse, come lui vittorioso sul gigante. Ogni racconto ha il suo campione, e non è difficile riconoscere gli echi gli uni negli altri, tracotanti ma pronti a riconoscere e ad accogliere come parte di sé chi gli si dimostri pari.
Come Enkidu, mandato per annientare Gilgamesh e il suo eccesso di bramosia di conquista, e divenuto doppio e compagno, ci sono Achille e Patroclo, e si intravvedono i Dioscuri. In una madre unica confidente dellasolitudine del sovrano una Giocasta prima della generazione inconsapevole.
Nel mito fondativo dell’Oriente si svela così quello dell’Occidente e le sue pretese primogeniture, ma non
basta: perchè è da un diluvio che rinasce la storia degli umani, e – percorrendo esattamente gli stessi passi – il Noè della Genesi si chiama Uthanapishti, consegnato all’immortalità perché insegni al re ad accettare la propria finitudine. E, insieme, perché consegni all’umanità un futuro che non può passare che attraverso il racconto.
Così hanno scelto di raccontarlo Calcagno, Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio, nell’impossibilità di
operare una sintesi che non passasse attraverso un carotaggio di istanti tenuti insieme dal filo sottile della parola: attraverso il racconto, nudo e puro. Che si articola e si modula fino a farsi salmodia rituale, nella voce di Calcagno che fa eco a quella di un antico sacerdote che attraverso le parole e i suoni profondi di una pelle percossa aprono squarci su un altro livello di realtà.
Come oggi sanno fare solo certi curaderos amazzonici, che coi loro icaros offrono ai pasejeros un viaggio negli stati alterati di coscienza. Da lì a un’antichità solo apparentemente più prossima,che ancora si conserva in Sicilia, il passo è breve, e la voce di Pirrotta è già diventata strumento, che disarticola le frasi in siciliano quanto basta per metterne a nudo il suono, di cuori che battono e di armi che cozzano.
Tutto origina dalla stessa radice, e allora non c’è modo migliore per raccontare un’epopea che non la danza tragica dei pupi siciliani che qui hanno perso i drappi eleganti dei paladini carolingi, e forse persino il teatro delle ombre, evocativo (più che quello orientale) di certi riti sciamanici dell’Africa che ancora
sopravvivevano a metà del secolo scorso. Continuare a camminare su questo filo di ancestralità pare
coerente, più dei pur suggestivi video che scorrono sul fondo della scena, vita palpitante isolata in
frammenti.
A cercare di stringere tra le dita un legame con un presente almeno parzialmente identificabile è Luigi Lo Cascio in veste di archeologo, attraverso il quale la parola narrata, la parola risuonante, si fa parola scritta, e la memoria orale prende la forma del poema e la consistenza friabile e granitica insieme delle pagine.
Si riemerge come chi sa di aver attraversato un’epopea, quella di tutti gli esseri umani e le forme mitiche di cui hanno avuto bisogno. Ma soprattutto di un’epica: quella del racconto in sé. Della narrazione.
Che assume senz’altro toni affascinanti e originali, notevoli soprattutto per Calcagno e Pirrotta, Lo Cascio
sembra qui mettersi generosamente a disposizione, lasciando ai compagni di scena lo stretto cono di luce che, precipitando l’intera pièce in uno spesso buio per larghi tratti, consente alla parola di prendere spazio.
Resta la consapevolezza di essersi assunti, tuttavia un’impresa titanica, nella sua stessa ideazione: nella sua natura di declamazione, a uscirne penalizzata è, infatti, la tessitura teatrale, che procede per
giustapposizioni e senza amalgamarsi mai davvero. Un ode alla parola che forse, per divenire spettacolo
compiuto, avrebbe bisogno della forza sovraumana di Gilgamesh, e della quiete – finalmente risolta – del
suo respiro lungo secoli.
Foto © Luca Del Pia