Arriva al cinema “Gimme Danger”, il documentario di Jim Jarmusch dedicato alla mitica figura di Iggy Pop e del suo gruppo giovanile, gli Stooges
Scrivere di musica è come ballare di architettura, disse Frank Zappa in una famosissima intervista, e per quanto il cinema parli con il linguaggio delle immagini, che però sottendono uno script, l’appunto di Zappa è perfettamente adattabile a qualsiasi discorso si faccia intorno alla musica.
Viceversa, un documentario musicale ha la funzione di raccontare la storia di una band, di una scena, di un genere musicale: in mezzo a molti felici esempi- per citarne solo alcuni, Eight Days a Week – The Touring Years, (The Beatles), One More Time With Feeling (Nick Cave), What happened, Miss Simone? (Nina Simone), Sugar Man (Rodriguez) – il fim di Jim Jarmusch Gimme Danger, dedicato alla mitica figura di Iggy Pop e del suo gruppo giovanile, gli Stooges, si inserisce con un occhio particolare.
Gimme Danger, nelle sale solo il 21 e il 22 febbraio, è stato proiettato in anteprima alla Casa Del Cinema di Roma, dove ho avuto l’occasione di vederlo.
Innanzitutto, la mano registica non può lasciare indifferenti: Jim Jarmusch è noto per essere un regista musicofilo (ultimo fra i suoi omaggi alla musica, Only Lovers Left Alive) e un appassionatissimo fan degli Stooges. L’amicizia con Iggy Pop, poi, è cosa nota: il cantante è comparso in due dei suoi capolavori, Coffee & Cigarettes e Dead Man.
La convinzione con cui mi sono recata al cinema sta di fatto nella mia passione per il cinema di Jarmusch, più che per la musica di Iggy e soci: il film, nel complesso, è un ritratto molto accurato della band, realizzato attraverso una lunga intervista di Jarmusch a Iggy (al secolo James Osterberg) con interventi degli altri Stooges.
Per chi non lo sapesse, Iggy Pop e i suoi Stooges sono stati una delle rock band più rivoluzionarie dei 60-’70: per nulla vicini al movimento hippy, ma piuttosto portatori e anticipatori del nichilismo punk, dei suoni new wave e pure di un certo metal.
Da Ann Aarbour, Detroit, Michigan, hanno prodotto il primo album The Stooges, che è sostanzialmente conosciuto per I wanna be your dog, dove Iggy desidera a tal punto la sua donna da voler essere il suo cane e No fun, inno al nichilismo disperante ripreso da tantissimi, Sex Pistols in primis.
Iggy racconta la genesi dell’album, nato da moltissima improvvisazione, come solo un istrione conosciuto per le sue provocazioni artistiche e sessuali saprebbe fare: per la gioia di ogni fan, non trascura aneddoti come il suo primo stage diving nel 1970- si è buttato sulla folla dei fan convinto che l’avrebbero trattenuto e invece è finito a terra spaccandosi il dente davanti- il rapporto con l’eroina e la cocaina, l’amicizia con il compianto David Bowie.
La sensazione che ho, assistendo alle quasi due ore di Gimme Danger, è che sia il film perfetto per chi fa dell’irriverenza al sistema e all’ordine costituito un cardine della propria vita, per una generazione, forse, diversa da quella degli anni ’80 in cui sono nata.
Lo spettatore ideale, quindi, è un fan duro e puro degli Stooges, come lo è Jarmusch, che dirige quasi scomparendo dietro la macchina da presa e lasciando nelle mani di Iggy regia e sceneggiatura, trasformandolo in un narratore coinvolgente, sagace e trasgressivo al punto giusto.
Due note che lasciano un po’ di perplessità: la prima è la monotonia del punto di vista.
Gli Stooges sono unicamente raccontati dagli Stooges (ovvero, da Iggy Pop), cosa insolita per un documentario, dove a raccontare sono chiamati amori, amici, famigliari, rivali. Qui il coro, che commenta l’azione, è sostituito dal monologo a una voce.
Seconda cosa, la quasi totale assenza di materiale d’archivio: pochi gli spezzoni tratti dai concerti, pochissimo materiale di repertorio (“I am a throw-out guy”, dice Iggy, “Sono un ragazzo che butta via le cose”), ed è un peccato, perché avrebbe arricchito l’esperienza, incuriosito i fan di primo pelo, esaltato i pasdaran.