Giochi privati e pubbliche virtù nella commedia catalana di Paul Mirò ridotta, diretta e recitata da Enrico Ianniello con un ottimo cast alla napoletana.
Con i tempi che corrono, riferirsi all’Europa come campo di coesione culturale risulta, se non impossibile, notevolmente arduo. In un momento storico – e, lo ripetiamo, culturale – in cui l’intertestualità si azzera per dissolversi in mero autocompiacimento, colpisce che un autore attivo in teatro, al cinema e sul piccolo schermo come Enrico Ianniello (da poco anche in libreria con La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin, pubblicato da Feltrinelli) decida di tradurre un’opera come Els Jugadors (I giocatori) di Pau Mirò, tra le figure più risonanti della drammaturgia catalana contemporanea.
Perché stupisce? Perché Ianniello, regista e interprete della pièce in scena al Teatro Franco Parenti dal 16 al 25 gennaio (dopo un’incursione al Piccolo lo scorso anno), ricodifica con rispetto il linguaggio di Mirò, e dis-loca l’ambientazione originaria, fecondando tutto in una Napoli sobria, schietta, libera dagli stereotipi e figlia del suo tempo.
Il tempo, il grande problema del nostro vivere oggi. La grande crisi, la frustrazione, il risentimento e l’(auto)piaggeria morale che ormai scolorisce l’esistenza di molti – e dei quattro personaggi principali in particolare – si misurano a colpi di tempo. Come già avvenuto con L’origine del mondo di Lucia Calamaro e con molti altri spettacoli firmati e imbastiti da giovani (e meno giovani) drammaturghi oggi, il cruccio temporale affligge gli animi di quelli che soffrono come ganglio d’insopportabile pressione.
La consapevolezza del danno e della lacuna incide più delle azioni e dei mali fattivi ed evidenti: è il caso-fulcro del giuoco delle carte, che in Mirò e nella messinscena di Ianniello viene silenziosamente dissolto da luci e cambi di scena, come a evidenziarne la reazione sui personaggi in scena, prim’ancora che la componente distruttiva. Le quattro anime dell’opera parlano e abitano come si fa a Napoli; in fondo, tuttavia, racchiudono il disamore, l’abbrutimento inspiegabile che si insinua trasversalmente, disinteressato a problemi di generi, generazioni, generativismi. Ianniello racconta un disagio condiviso applicandone i bordi al gioco della commedia, snodandosi agevolmente tra la vitalità del testo originario e i meccanismi serrati di una traduzione fluida e ossigenata.
Senza trascurare il sostrato cinereo di desolazione che ne accompagna lo sviluppo, il regista sospende l’ambientazione in un nucleo scenico di sobria compattezza, aiutato sulla scena da tre co-protagonisti di lusso: Renato Carpentieri, Luciano Saltarelli e Tony Laudadio. Tutti in grado di incarnare – con leggerezza e, al contempo, estrema pertinenza – i contorni disperati di quattro diavoli che non avrebbero sfigurato in una commedia con Walter Matthau, ma che al contempo evidenziano quel solitario clamore esistenziale evidenziato con grazia dal testo di Mirò. Impossibile stabilire chi sia il più bravo: i tempi comici e le parentesi serie trovano gioiosa corrispondenza tra loro. Una parentesi per Renato Carpentieri, professore avanti con gli anni e alle prese con l’incedere (crono)logico di vecchiaia incipiente, però, ci sta tutta.