Ha raccontato l’eccidio di Marzabotto, scegliendo uno sguardo bambino. Qui il regista dice: occorre trasmettere la memoria delle singole vite, lì sta l’arte
Giorgio Diritti è l’autore di L’uomo che verrà, un film importante, fra i più belli che il cinema italiano ha dedicato alla Seconda guerra mondiale e alla Resistenza. Arrivato sugli schermi nel 2010, racconta in modo realistico e al tempo stesso poetico uno degli episodi più tragici di quel drammatico periodo: la strage di Marzabotto, avvenuta sull’Appennino bolognese nel settembre del 1944 e costata la vita a 770 persone, in gran parte donne e bambini, anche piccolissimi. Con lui discutiamo di memoria, resistenza, ieri ed oggi.
L’uomo che verrà non è direttamente un film sulla Resistenza, sui partigiani. Nel film li vediamo, ma al centro della scena ci sono i contadini, i bambini, la vita quotidiana di chi viveva alle pendici del Monte Sole, sull’Appennino bolognese. E solo a poco a poco in questo scenario duro ma pacifico si fa strada la paura, la violenza, la guerra. Una scelta ben precisa, immagino…
Sì, assolutamente. Il mio obiettivo era evitare a ogni costo la retorica e quindi riuscire a raccontare la Storia, quel particolare evento storico, e in parallelo descrivere la vita della gente comune che in Italia in quel periodo – come in mille altri luoghi del mondo e nei momenti storici più diversi – vuole soltanto condurre in pace la propria vita, crescere i figli, lavorare, e invece arriva qualcosa di estraneo, di totalmente folle, che in base a incomprensibili criteri di potere o di eugenetica stravolge e annienta tutto. Ecco, il mio film è nato dal desiderio di mostrare la guerra come elemento estraneo ai veri bisogni delle persone, alla loro quotidianità, alla loro normalità. Qualcosa di orrendo su cui dobbiamo sempre vigilare tutti, in ogni momento.
Un concetto di resistenza che potremmo definire allargato?
Certamente, il mio è anche un film sulla Resistenza, ma a me non interessava parlare soltanto della resistenza armata: volevo mostrare anche e soprattutto una logica di resistenza civile. Nel film le famiglie hanno ben chiaro fin da subito che quello che sta arrivando è contrario al senso della vita, e quindi resistono istintivamente agli invasori nazisti, anche senza imbracciare i fucili. Questo concetto di resistenza civile è fondamentale a ogni latitudine e in ogni epoca, anche oggi. Resistere secondo me vuol dire opporsi nella vita quotidiana a ogni ideologia razzista, a ogni tentativo di dividere le persone in quelle di serie A e quelle di serie B, che possono anche essere ammazzate come pidocchi.
Il punto di vista è quello di una bambina di otto anni, Martina, che non parla però osserva tutto con grande attenzione. Il suo è lo sguardo del regista?
Sì, è un po’ il mio sguardo ma è soprattutto quello dei bambini. I bambini ci guardano, ascoltano, e ci giudicano. Sono proiettati verso il futuro e spinti sempre dal desiderio di capire il senso della vita e delle cose. Nella loro ingenuità, hanno una maggiore capacità di riconoscere ciò che non ha senso. La guerra, per esempio. Rispetto a noi adulti abituati troppo spesso a una sorta di rassegnazione: oggi c’è una tragedia, domani un’altra e noi andiamo avanti lo stesso con le nostre faccende, magari spendiamo una lacrima, ma non siamo mai veramente partecipi. Pochi hanno la capacità di mollare tutto e andare ad aiutare chi è in difficoltà, fare qualcosa di concreto per opporsi al male. La mia decisione di usare lo sguardo di Martina per raccontare questa storia vuole essere il tentativo di risvegliare le coscienze, rammentare a tutti quali sono le vere priorità: la vita, la propria famiglia, la possibilità di costruire un futuro sereno. Io ho deciso di mettere i bambini al centro del mio film soprattutto perché a Marzabotto, sul Monte Sole ne sono morti più di 200. L’idea di questa loro vita negata è stato l’elemento fondamentale alla base dell’esigenza di fare questo film. Ho pensato che queste piccole vite rubate – innocenti, assolutamente, in modo inequivocabile – dovevano essere in qualche modo riscattat,e
La piccola Martina ritrova la voce solo nella scena finale, cullando il fratellino. Possiamo dire che questa voce rappresenta la memoria?
Sì, certo, è la memoria, ma anche la responsabilità. Lo sguardo della bambina, nell’evoluzione del film, diventa anche uno sguardo di grande responsabilità, perché Martina alla fine si fa carico del futuro del fratellino appena nato e ne diventa in un certo senso madre, e padre, perché gli altri sono tutti morti. Lei diventa così, in un certo senso, il testimone della speranza, ma anche della necessità di sentirsi tutti profondamente responsabili della costruzione di un mondo nuovo e migliore. E’ il senso di responsabilità che gli adulti nella vita quotidiana troppe volte smarriscono, delegando ad altri quel ruolo di vigilanza che solo può impedire di ricadere in situazioni simili a quelle che racconto nel film.
Il rischio è sempre dietro la porta…
Esatto! Pochi anni fa tutto il Nord Africa sembrava democratizzato, c’era questo vento straordinario che veniva da quei paesi, le Primavere arabe, a distanza di pochissimo tempo siamo qui a osservare una situazione di grande confusione, di guerra, di lotta fratricida, a due passi da casa nostra e che man mano si sta avvicinando, sta già entrando in casa nostra. Su tutto questo troppo spesso abbiamo un atteggiamento distratto che è proprio quello che può portarci verso la catastrofe, come è avvenuto tante volte nella storia.
La vera sfida oggi forse è proprio quella di riuscire a parlare ai bambini, ai ragazzi che sono nati in un’Italia lontana dalla guerra e dove partigiani in vita ce ne sono sempre meno. Come si fa, secondo te, a trasmettere la sensazione che questa storia – la guerra, la Resistenza – li riguarda ancora ?
La voce diretta dei testimoni sta venendo meno, è vero. Una volta forse era più facile, i nonni raccontavano direttamente ai nipoti, c’era una voce che poteva dire: io ero lì, io c’ero. Proprio per questo un film – il mio ma non solo, qualunque film, documentario – può essere utile per ridare forza all’emozione del racconto. I libri di storia vanno benissimo, ma il rischio è di trasformare questi eventi in nozioni, informazioni che rischiano di apparire in sé un po’ aride. Non basta trasferire numeri e date, quello che è importante è la partecipazione emotiva. Bisogna cercare di rendere evidente la Storia in termini di storia delle singole persone. Riuscire a raccontare realmente l’esperienza umana. Questa è la grande scommessa dell’arte: trasmettere dei contenuti, la memoria di quello che è stato attraverso le emozioni vive, non le analisi fredde.
Molte scolaresche vanno in visita a Auschwitz come anche a Monte Sole…
La cosa più bella è dare ai ragazzi la possibilità di entrare in contatto con delle testimonianze dirette. Invece di una semplice notizia su un libro, i ragazzi devono avere la possibilità di vedere e toccare con mano, che è un po’ quello che fai quando un evento storico lo metti in un film. È importante che il trasferimento delle nozioni venga sempre accompagnato dal sentimento, come è sempre stato nella tradizione orale. La scommessa è quella di ricordarci in ogni momento che siamo uomini fatti di carne e capaci di emozioni, di sentimenti.