Tributo necessario a un grande artista. In occasione di una retrospettiva sul padre della Musica Totale
Oggi, seduti sul tappeto CinquantaxCinquanta del ’68 da rileggere, fra i molti ripensamenti che frullano per la testa uno ritorna insistente: che a Giorgio Gaslini dobbiamo onore e molte scuse. (Il Museo del Novecento e l’Associazione Nomus gli dedicano una retrospettiva, anche se di lui non cadono anniversari precisi).
Gaslini, si diceva, è il Jazz d’Italia, semplicemente. La linea calda della lingua afroamericana, temperata con la nostra, italiana ed europea, senza di lui non esisterebbe o almeno sarebbe più incerta e indefinita. Ma Gaslini fu un musicista più complesso di quel che lo schemino dice. Solido come pochi quanto a cosiddetto bagaglio tecnico, pianista completo, compositore, direttore d’orchestra, Gaslini (Milano 1929, Borgotaro 2014) ha sperimentato di tutto nella sua tormentata storia di autore del nostro tempo; ha suonato e si è confrontato a viso aperto con molti grandi della musica nera, ora scendendo ora risalendo il piedestallo di chi conosceva anche la lingua di Schönberg, Stravinskij, Bartòk, che tanto amava. Distinto nel porsi, come uomo elegante e colto, ma ancor più distinto, come musicista, dagli “altri”, che emergevano anche gagliardi dalle nebbie di un dilettantismo indotto dall’emarginazione del Ventennio, prima, dall’altezzosità delle nuove accademie, dopo.
Giorgio Gaslini, milanese ha avuto ragione di entrambe, ma è complicato fino all’imbarazzo ripercorrere le strade che lo hanno portato con coraggio e testardaggine a teorizzare e vivere quel che oggi semplifichiamo fino alla nausea come “globalità” e lui meglio di tutti concentrò in un concetto più nobile e vero.
Musica totale. Lo fece prima di tutti: nel 1975, se ci fermiamo alla data di uscita del saggio Musica totale per Feltrinelli; dieci anni prima se crediamo a quel che spesso ripeteva, testimoniato nell’autobiografia-intervista del 1985 (Giorgio Gaslini, Adriano Bassi, Franco Muzzio editore). Musica totale sarebbe stato scritto già nel 1965 e proposto al giudizio di Massimo Mila, che avrebbe consigliato di tenerlo in un cassetto perché “troppo avanti”.
Che cosa teorizzava Gaslini allora? Questo: «Musicista totale è un ideatore che si apre alla bellezza musicale significante al di là di generi, forme, provenienze culturali specifiche. Un musicista che si apre costantemente a tutte le culture musicali del passato e del presente, facendole proprie e restituendo, in un linguaggio-sintesi più alto, questa vasta esperienza nel suo gesto creatore». Cose normali, oggi, ma cinquant’anni fa?
L’accademia. Gaslini non nacque “colto”, lo diventò. E nel come è già scritto il futuro: il bene del musicista e il male della sua tormentata “recezione”. Per farsi accettare al Conservatorio di Milano dovette provare due volte. La prima, appena finita la guerra, completamente self-made-pianist, affrontando lo spregio di una commissione presieduta da Pick Mangiagalli (pianista e compositore boemo ndr) : improvvisò “cose sue”, come usano i jazzisti, e fu cacciato. (Passò invece il giovane che sosteneva la prova nella stessa sessione, Niccolò Castiglioni, che ci rimase male, da persona per bene qual era).
Dovevano passare altri quattro anni perché Gaslini, ritiratosi in studi personali e disperatissimi, potesse trovare una commissione più in sintonia con i nuovi tempi, i vicini Cinquanta: fu accolto al quinto anno di composizione, segno che aveva le basi.
Anche il saggio con cui Gaslini conclude il cursus honorum, nel 1951, è da manuale: nel pezzo scritto per l’occasione, una partitura concertante per orchestra, pianoforte, voce solista e coro (tutto insomma), al pianoforte c’è Claudio Abbado, compagno di banco alla classe di contrappunto, e alle percussioni Luciano Berio, con cui Gaslini amava leggere a quattro mani il repertorio sinfonico, diplomato con lui quella mattina.
L’altra metà di Gaslini, già con le orecchie aperte sul Be-bop, si fa le ossa in sale da ballo di Milano dove vanno ad ascoltare “il jazz” anche Cesare Pavese, Fernanda Pivano, Salvatore Quasimodo, Renato Guttuso, Lucio Fontana. Ma a Gaslini non basta. Attraverso Stan Kenton scopre Edgar Varèse, che di Kenton era stato maestro, e anche Hindemith, Stravinsky, Milhaud; non è senza conseguenze su di lui il lavoro che Luigi Rognoni aveva iniziato nell’approfondire e diffondere la nuova scuola di Vienna, Schönberg, Berg e Webern. Così, tra le vicinanze italiane di Petrassi, Dallapiccola e Malipiero, e le vicinanze “di cuore” di modelli allora jazzisticamente eccentrici come Lennie Tristano e Thelonious Monk, dopo aver coltivato l’amore per Palestrina e Monteverdi, il patrimonio culturale di Gaslini si carica di pesi che la curiosità dell’uomo arricchisce anche di più.
Con l’escamotage di accompagnare gruppi di non vedenti dell’Istituto dei Cechi da Via Vivaio alla Scala, Gaslini riesce ad ascoltare, dall’ultimo palco di proscenio, Toscanini, Cantelli, De Sabata e un ventisettenne austriaco al debutto, di nome Herbert von Karajan, e pianisti come Walter Gieseking. Un Corso di perfezionamento alla Chigiana di Siena mette il sigillo all’alto apprendistato dei primi Cinquanta.
La svolta. Un posto a La voce del Padrone, che dà certezze economiche ma succhia ore di lavoro alla vocazione del comporre, non impedisce la nascita del pezzo che si alza come prima colonna d’ingresso alla carriera, e alle prime polemiche di una vita.
Nel 1957, a ventotto anni, Gaslini compone Tempo e Relazione, brano per ottetto che presenta al festival del jazz di Sanremo e che, altrettanto esplicitamente come il saggio di Conservatorio, definisce il suo linguaggio presente e futuro; e non solo. Tempo e Relazione è una vera partitura da terza via, che non è quella di John Lewis (che pure l’ascolta, ne rimane colpito e invita Galsini ai suoi corsi di Lenox). Tempo e Relazione è musica che attraversa il jazz e diverse lingue contemporanee, già “totaleggiando” come il suo tempo non è in grado di capire o di accettare. Infatti Tempo e Relazione non viene accettato, in Italia, ma accende le luci su Gaslini all’estero, e costringe La Voce del Padrone italiana a pubblicare un disco che non avrebbe mai pubblicato senza il benestare della sede di Parigi.
La notte. Fra chi invece ascolta e apprezza Tempo e Relazione c’è un insospettabile, Marcello Mastroianni, che lo “passa” a Michelangelo Antonioni. Per il maestro dell’incomunicabilità quella musica è ideale per il film che sta per girare. Con la colonna sonora de La Notte, Gaslini vince un Nastro d’argento e si apre al filone che sempre coltiverà: il commento all’azione, all’immagine, alla danza, al cinema, alla televisione; l’integrazione tra musica, gestualità e teatro (che lo porterà a comporre Un quarto di vita, opera sulla rivolta generazionale, Teatro Regio di Parma, 1969, scene di Luciano Damiani).
Nuovi sentimenti. Troppo colto per il jazz (italiano), troppo poco per la musica colta contemporanea, dominata dai diktat di Darmstadt, Giorgio Gaslini forma il suo primo quartetto con Gianni Bedori al sax e apre con l’altra colonna d’ercole della sua carriera, l’album New Feelings (Nuovi sentimenti, 1969), una galleria di collaborazioni che mette in fila gente che-conta come Don Cherry, Steve Lacy, Gato Barbieri, e poi Max Roach e Abbey Lincoln; Jean-Luc Ponty, Paul Rutherford, Tony Oxley in Fabbrica occupata, e i duetti anni Settanta con il trombonista Roswelll Rudd (Sharing), il contrabbassista di Bill Evans, Eddie Gomez (Extasy), i multisax del genio Anthony Braxton (Four Pieces).
Così, tra le Schumann Reflections per trio jazz, dalle Kinderszenen, tra un Monodrama con testi di Kerouac, direzioni d’orchestra (a Bari e alla Rai di Torino) della Prima Sinfonia di Ives e una antologia di Gershwin, Giorgio Gaslini finisce per attraversare gli anni caldi della rivoluzione giovanile, del terrore stragista, dei grandi scioperi, sempre dalla parte di chi lotta, contesta, riflette, facendo musica ed eventi “per discutere”, sempre dalla parte “giusta”.
Dobbiamo chiedergli scusa perché nei suoi concerti con rischiosissimi “segue dibattito”, molto l’abbiamo sottovalutato anche noi, unendoci all’intransigenza di chi non concepiva nient’altro che i modelli “originali”, i neri che invece Gaslini non l’hanno snobbato (appunto i Don Cherry, i Max Roach, gli Anthony Braxton). E di quei modelli Gaslini aveva rispetto e conoscenza profonda, basta ascoltare e decifrare le sue analisi di Ellington (Harlem Nocturne), di Thelonious Monk, di Albert Ayler (Ayler’s Wings). Senza contare le sue prime “scuole” di jazz, i testi come Tecnica e arte del Jazz (Ricordi, 1982), i laboratori con il Living Theatre di Julian Beck, le scoperte o valorizzazioni di musicisti come Enrico Rava, Andrea Centazzo, Bruno Tommaso, Massimo Urbani, Gianluigi Trovesi, Tiziana Ghiglioni e così avanti.
Il destino di Giorgio Gaslini è sempre stato stretto tra la gelosia sorda del mondo del jazz, critici in testa, e l’altezzosità di una musica contemporanea non meno sorda e chiusa, prima che le nuove generazioni (dei Romitelli e poi dei Francesconi), considerassero naturale quella “unità del molteplice” che cinquant’anni fa egli aveva già visto e che ora è moneta corrente.
Immagine di copertina di Giorgio Gaslini Official Website