Ondo, spazio di ricerca dedicato all’arte contemporanea fondato a Pistoia da Arianna Iandelli e Costanza Nizzi, inaugura la propria attività espositiva con la mostra Paesaggi Italiani di Giovanni Copelli. Nel luminoso ex magazzino sede di Ondo, panini, scorci cittadini, interni di chiese, ritratti rubati e avanzi di cibo modificano lucidamente il concetto di paesaggio, nell’arte e nell’esperienza.
A un certo punto, in una sua lettera del 1961, Giorgio Manganelli scrisse: “La mattina di venerdì mi venne voglia di andare a Pistoia: ma l’idea mi venne alle 9 e mezzo. Troppo tardi: quindi ci andai. […] A Pistoia c’è una sola cosa straordinaria, mi pare: San Giovanni Fuoricivitas, la chiesa più larga che profonda, con la maglia della Juventus”. Anch’io ci sono andata di venerdì mattina, a Pistoia, e mi permetto di dissentire – mi scusi, Pingue Inferico Maestro – ché a Pistoia di cose straordinarie ce ne sono diverse, oltre a San Giovanni Fuorcivitas: il pulpito e i crocifissi lignei di Giovanni Pisano; er cuppolone di Vasari alla Madonna dell’Umiltà; Ondo, neonato spazio espositivo fondato da Arianna Iandelli e Costanza Nizzi, che ha dato il via alle sue attività con “Paesaggi Italiani”, mostra personale di Giovanni Copelli visitabile fino al 9 novembre 2024.
Prima di arrivare a Copelli, però, devo – o quantomeno voglio – soffermarmi sul contorno, ché di cibo, tra i quadri del pittore, ce n’è a sufficienza da reggere un accompagnamento bello ricco: patate al forno, spinaci butirrosi, melanzane fritte. Amando tutte e tre queste portate, vado a caso, le associo come viene. Le patate al forno sono Ondo stesso: lo spazio è ricavato dagli spazi al piano terra di un ex magazzino tessile nella zona industriale di Pistoia, a pochi minuti in macchina dal centro storico. È un ex magazzino, ma niente archeologia industriale: l’ambiente è luminosissimo ed elegantissimo, con un pavimento di mille grigi diversi che sembra piuttosto uscito da qualche dimora altoborghese meneghina. Negli spinaci butirrosi vedo il progetto grafico-editoriale in collaborazione con Sali e Tabacchi Journal – che non ha bisogno di presentazioni, credo. “Ondo Agenda” è il nome della collana di pubblicazioni super chic che accompagna le mostre; nel caso della personale di Copelli, le pagine ospitano le penne (rigate, ben condite) di Giorgio Di Domenico e Jo Rigo. Ed eccoci, così, alle melanzane fritte: che bello leggere dei testi che non solo dicono qualcosa, ma sono addirittura scritti bene – è chieder troppo? Una chicca lampo: Di Domenico ci fa un po’ eccitare riflettendo sulla “stratigrafia lipidica, quasi un Rothko colesterolico” (!) de Il banco dei salumi di Copelli.
Giungiamo alla portata principale: panini che straripano di prosciutto cotto o crudo appena affettato da cosce subito riposte sulle mensole della gastronomia, statuarie bottiglie di Peroni, montagnuole di paste, formaggi ammassati in vetrina e gustose salse già gustate costellano lo spazio espositivo facendosi trionfalmente spazio tra tombe etrusche, gente che pippa, case napoletane, turisti in visita al Cenacolo di San Salvi e chiese varie. Queste ultime sono sia reali, per quanto dipinte, (la fiorentina Santa Felicita, oppure Santa Caterina a Formiello), sia formato souvenir (la Cattedrale mignon, un modellino che Copelli conficca in una telina 18×13) e, proprio grazie a questo doppio statuto, ci offrono una visione a 360° di quei ghirriani “Paesaggi Italiani” contemporanei che danno il titolo alla mostra. Come scrive Rigo nel suo testo, “forse non abbiamo ancora completamente ricostruito” il paesaggio italiano in cui quotidianamente ci muoviamo e, allora, il luogo reale (la chiesa) e quello rappresentato (il souvenir della chiesa) si confondono, creando un unico immaginario in cui la cosa, la sua rappresentazione e la rappresentazione della rappresentazione non differiscono poi troppo nella scala dei valori che attribuiamo loro.
Sempre Rigo parla di cropping fotografico e landmarks e normative di tutela paesaggistica, tre modi di cristallizzare il paesaggio: i quadri di Copelli riuniscono questi tre modi dosandoli di volta in volta in maniera differente, aggiungendoci del Finto Realismo pittorico, rimarcato anche da Di Domenico in chiusura al suo testo. Nell’inquadrare in modalità macro la cattedrale souvenir, il pittore landmarkizza lo scherzo: rende quell’oggettino pagato pochi euro l’unica cosa che può essere vista – che è degna di essere vista – così come nei centri storici delle nostre città sembriamo accorgerci solo della chiesa cattedrale di qualche secolo fa, dimenticandoci il contesto paesaggistico di contorno, sbuffando se nella foto che stiamo scattando si vedono i tavoli di un bar vicino all’abside; nel mettere in primo piano il bambino, tagliando via porzioni importanti del Cenacolo di San Salvi, Copelli punta il dito sull’elemento di disturbo di cui, volenti o nolenti, non possiamo liberarci; nel far stagliare la Peroni contro il cielo sopra la stazione di Bologna, l’artista crea una novella, ma già esautorata cariatide, pendant del decrepito, ma secolare teschio della certosa napoletana di San Martino esposto a pochi passi di distanza. Il pieno in asse della vitrea birra e del cranio litico dipinti da Copelli ci blocca sapientemente la visuale, ci costringe a fermarci sul “dettaglio” – come “dettaglio”, nella comune concezione delle cose e nella nostra vita vissuta, è il souvenir e come lo è il ragazzino che dà le spalle ad Andrea del Sarto – ribaltandone lo statuto. Questo pieno in asse, come tutti i pieni in asse, gioca a sfavore della monumentalità e della gloria, nonché del colpo d’occhio, su cui tanti discorsi relativi ai “Paesaggi Italiani” sono stati, e ancora vengono, costruiti.
In una recente conversazione privata, mi sono – adorabilmente, felicemente – scontrata con Giovanni Copelli parlando del passato e dell’arte del passato e della tendenza squisitamente umana di idolatrarlo, il passato. Parlandomi, ha detto che non sa cosa rimarrà della nostra epoca tra 3000 anni. Sperando che tela e chimicissimi pigmenti sopravvivano, rimarrà quella Peroni prossima al suicidio: svuotata, basta che si alzi un vento sostenuto per farla cadere sui binari: come un memento mori che i posteri guarderanno come noi guardiamo le stele nei musei archeologici o i fiori appassiti degli Olandesi del Seicento. D’altronde, ogni tempo ha il suo modo di ricordarci che, tanto, dobbiamo morire.