Autorialità, eleganza e ricerca del meraviglioso: il fotografo di moda (e non solo) più celebre d’Italia racconta la felicità dello scatto
Signore e signori, Giovanni Gastel. Nato nel 1955 da Ida Visconti di Modrone, nipote di Luchino Visconti, ma figlio spirituale di Irving Penn, sulla sua strada di ragazzo dalle grandi speranze non vedeva altro che la fotografia. Il primissimo amore è stato la poesia – ha pubblicato il suo primo libro a sedici anni – l’altro canale espressivo da lui privilegiato, poi ci fu il teatro, finché il bisogno di scattare ha prevalso ed è diventato la sua vita. In tutta la sua storia di fotografo non ha fatto che creare un mondo alternativo, sempre diverso, magico, inquietante e pieno di bellezza, secondo un’estetica personalissima.
Gastel nel 2016 festeggerà 40 anni di carriera con una grande mostra a cura – come sempre – di Germano Celant. Nei mesi scorsi abbiamo visto molti dei suoi ritratti in giro per Milano, da quelli esposti in via Montenapoleone al compendio delle 100 facce della musica italiana, realizzato per Rolling Stone e in mostra a febbraio alla Fabbrica del Vapore. Al momento partecipa alla collettiva del padiglione Arts&Food di Expo alla Triennale, mentre in uscita a settembre c’è la sua biografia. «Già, si potrebbe dire che sono un po’ sovraesposto», scherza Gastel. «Anche su Facebook sono molto attivo: per ora però nessuno mi ha ancora detto che ho rotto le scatole!».
È che creare dà dipendenza. «Non ne posso fare a meno: forse non ho mai avuto bisogno di nessun’altra droga perché questo gioco è adrenalinico, anche quando va male. Passi da stati di euforia a stati di depressione profonda, però sei vivo». Creare è doloroso, «per questo sono malinconico. Poi, certo, scherzo e rido come un pazzo». Un malinconico dotato di senso dell’umorismo e di un’eleganza che sembra arrivare da un altro tempo.
Mentre sediamo nel suo studio in via Tortona, circondati da un’immensa biblioteca di cui non riuscirei mai a contare i libri, gli chiedo di quel progetto in collaborazione con Rolling Stone. «Ho ritratto le vecchie generazioni di cantanti e musicisti accanto a quella dei giovanissimi. Certo, per raccontare tutta la musica italiana avrebbero dovuto essere almeno mille, quelle facce». Gastel è abituato a ritrarre le celebrities, ma con l’universo della canzone aveva lavorato poco. Ha deciso di leggerlo secondo la sua interpretazione, di ritrarre «il riflesso che l’artista e la sua arte, quello che conoscevo del suo lavoro musicale, aveva lasciato in me». La sorpresa è stata scoprire che in qualche modo conosceva già ciascuno di loro: «Gli artisti veri raccontano se stessi attraverso le opere. Quando ho dovuto incontrare, per esempio, De Gregori ho sperato non fosse troppo dissimile da come l’avevo sempre immaginato: era identico. Tutte le sue canzoni avevano già raccontato com’era».
La fotografia di Gastel è rapida, per sua filosofia, il ritratto in maniera particolare: si tratta di un atto di seduzione veloce tra uomo e donna e tra donna e uomo, tra uomo e uomo e tra uomo e oggetto. Alla Fabbrica del Vapore insieme alle 100 facce c’erano anche un paio di installazioni in cui una raffica di scatti ravvicinati del set fotografico e del making of sono diventati video. «È da un po’ che faccio compiere ai soggetti delle azioni mentre fotografo in sequenza molto rapida». Gastel è sempre stato più attratto da immagini fisse, da fotografo puro. «Ho sempre amato anche il cinema, per via anche di mio zio Luchino. Ora io e i miei assistenti stiamo lavorando a montaggi di brevi sequenze: mi diverte molto questo movimento fermo». Alla fine restano comunque le sue fotografie: le stesse luci, le stesse ottiche e le stesse inquadrature.
E la mostra del 2016 a Palazzo Reale? «Sarà la storia di un uomo e del suo tempo», un racconto cioè di cosa succedeva nella vita di Giovanni Gastel parallelamente alla storia del nostro Paese e dell’arte. «Decisamente più divertente di vedere 40 anni della mia storia e basta!».
Nel frattempo la storia della propria vita Gastel l’ha già scritta in un’autobiografia, Un eterno istante, in uscita a settembre per Mondadori. Cosa ha scoperto guardandosi indietro? «Consciamente e inconsciamente ho vissuto quest’avventura, ormai lunghissima, considerando che quello che ho fatto non certifica niente, che quello che farò è del tutto aleatorio e che io ho solo oggi, solo questo momento per dimostrare tutto quello che voglio dimostrare a me stesso e agli altri». Allora a dare valore al suo lavoro, al di là del soggetto, è questo frazionare il tempo, annullare passato e futuro in fotografia e vivere costantemente la prova assoluta, l’occasione di tutta la vita. «Ho capito, scrivendo, che non mi importa in fondo se il mio soggetto sia un bottone o una top model: io devo fare una grande foto, anche se non è sempre detto che mi riesca».
«L’unica realtà è l’oggi». In questa filosofia dell’adesso ogni progetto nasce al momento. «Anche da ragazzo facevo i disegni preparatori e riflettevo molto durante la notte prima di un set: il giorno dopo poi facevo qualcos’altro, perché il resto, in qualche modo, l’avevo già fatto». E poi la fotografia è molto legata anche allo stato d’animo degli altri, del soggetto: «Devo vedere chi esce dal camerino, com’è la modella, a che punto sono i suoi nervi, tutte cose che non sono prevedibili».
E anche allora, ancora deve cominciare tutto: prima di scattare la fotografia giusta, c’è uno stato di inquietudine, qualcosa che non va, fino al momento in cui la fotografia arriva e l’atto è compiuto. «In quell’attimo tutto acquista senso. Anima e pensiero si rilassano, in un sospiro, e io sono felice. Quel 125esimo di secondo di gioia assoluta vale una vita». Quando riguarda una di quelle foto è in grado di farlo tornare? «No, è un equilibrio che c’è nello scatto: adoro il momento della post-produzione, ma quella sensazione è in grado di dartela solo la macchina fotografica». Dopo quell’attimo di soddisfazione, inizia la ricerca successiva, che non si deve mai fermare e va sempre spinta ai limiti. «Noi siamo più giocatori d’azzardo che artisti».
Certe sensazioni non cambiano nemmeno dopo 40 anni di esperienza. O forse, un po’, sì: «Ora è molto più difficile da trovare: da ragazzino la provavo quasi subito, probabilmente perché avevo studiato, confrontato, conosciuto poco». Lo studio allontana il momento in cui il tuo prodotto ti piace, quindi lo rende sempre più alto. È sfogliando e studiando le riviste che comprava sua madre, Vogue e Bazar America, che da ragazzino si è imbattuto in Richard Avedon e Irving Penn, quest’ultimo da lui definito padre spirituale. «Aprivo quelle riviste, sconvolto dalla meraviglia: lì ho capito che la bellezza è trasversale, è un modo di vedere l’universo che travalica le epoche e che non è confinato al classico».
Anche nella poesia c’è bellezza: chiedo a Gastel qual è il nesso tra la sua fotografia e la sua poesia. Mi dice che molti cercano di accostare i suoi lavori, ma che alla base c’è in realtà un bisogno molto diverso. Lo scatto è nervo e liberazione istantanea, la scrittura si rende necessaria per oggettivare, risolvere in segni, uno stato d’animo latente che si è reso visibile e manifesto. La fotografia è ricerca del meraviglioso, la poesia della propria parte dolorosa. Sono due lingue che nascono da necessità altrettanto forti, ma modi di pensiero lontanissimi. «C’è qualche caso in cui una poesia è nata da una foto, ma saranno 2 su 10mila».
Che si tratti di parole o immagini, l’importante è essere autori. Come? «Definendosi. In fotografia ci sono miliardi di possibilità ed è terrorizzante: il primo passo è definire se stessi in un aggettivo, una parola. Chiedersi “come sono oggi?”. Oggi, mica per l’eternità. Poi quella parola deve diventare un’estetica e tutto il resto è semplice». Sarà, a me sembra tutt’altro che semplice. «Diciamo per esempio che io sono arrogante: dunque dovrò fare una fotografia arrogante e la scelta delle modelle, della pellicola, delle ottiche verrà di conseguenza. Se sono timido, tutto sarà timido». Lei che parola ha trovato? «Eleganza, che per me è un valore morale e un modo di essere nel mondo: in fondo non l’ho mai cambiata, l’ho attualizzata senza nemmeno rendermene conto».
E poi? «Tenere a mente che la prima, seconda, terza e quarta cosa che vengono in mente non bisogna mai farle, perché sicuramente ci avrà già pensato qualcun altro». Tutto questo Gastel prova a trasmetterlo ai ragazzi che passano dal suo studio: «Al di là della tecnica, cerco di insegnargli a vivere, a essere, costruirsi, cercarsi. Ad abbattere il muro tra quello che sono e quello che fanno, ad avere il coraggio di arrivare in profondità e di far deragliare il sistema: è questa l’autorialità».
Arts & Foods – Rituali dal 1851 Triennale di Milano
Foto: in apertura Gastel ritratto da Cristiano Miretti. All’interno foto di Giovanni Gastel