Giulio Cesare in endoscopia, pezzi vincenti di Castellucci

In Teatro

Dopo vent’anni di assenza dai teatri milanesi ritorna al salone d’onore della Triennale di Milano uno degli spettacoli-simbolo di Romeo Castellucci, questa volta in versione… smembrata.

Mancava dalle scene milanesi da quasi vent’anni, da quando venne rappresentato al teatro di Porta Romana nel 1997. E se quel teatro oggi non esiste più, non esiste più nemmeno il Giulio Cesare della Societas Raffaello Sanzio. Almeno non nella sua forma intatta. È infatti smembrato, destrutturato, in Pezzi Staccati, che giunge al salone d’onore della Triennale di Milano uno degli spettacoli-simbolo di Romeo Castellucci. Un nome considerato tra i più significativi del teatro contemporaneo internazionale. All’estero, naturalmente. Già perché in patria la visibilità del regista cesenate è spesso venuta a mancare nonostante qualche tumultuosa eccezione (vedi la polemica degli integralisti cattolici in merito a Sul concetto di volto nel figlio di Dio nel 2010). Castellucci chi? Direbbero infatti in tanti, organizzatori e stabili compresi, alla maniera acida del premier del Belpaese. E non per ignoranza o cattiveria, intendiamoci, ma per una scelta precisa, a tratti obbligata: considerati i costi produttivi elevati, un certo tipo di teatro interessa a pochi ormai, a pochissimi. E benché a tal proposito si potrebbe affrontare – come vorrebbero fare in molti tra i presenti all’incontro pre-debutto milanese – il sacrosanto lamento dei tempi che corrono, delle politiche culturali atrofizzate, della negligenza degli artisti, delle platee livellate dal “ventennio televisionista”, è proprio il regista della Societas a placare gli animi. “Piuttosto che piangersi addosso, meglio fare come i ricercatori in fuga e trovare i propri spazi altrove”, chiosa filosoficamente come un maître-à-penser sicuro del proprio valore.

Certo un tipo così, capace di teorizzare che “essere contemporaneo” significa stare fuori dal tempo e che mode e attualizzazioni sono aspetti frivoli ed effimeri che poco hanno a che vedere col fare teatro, non deve certo stare simpatico al pubblico di massa. Eppure, trincerata dietro gli occhiali-montatura-anni60, schermata dalla corazza del suo dolcevita nero e dalla voce pacata (che lo rendono simile a certe immagini di Pasolini), si cela una certa dose di ironia. Lo testimonia il primo dei tre frammenti scelti per questa messa in scena che usa il testo shakespeariano come trampolino di lancio per una riflessione sull’origine e sul potere della parola (teatrale ma anche politica). Un attore che reca sul petto la targhetta “…skij” (riferimento a Stanivslavskij) recita le battute del tribuno Marullo mentre si infila nelle narici (fino ad arrivare alla cavità orale) un sondino endoscopico, mostrando alla spettatore dove effettivamente nasce la parola: non dall’interiorità dell’attore ma semplicemente dal suo interno!

 

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E ugualmente straniante è il monologo di un Giulio Cesare che si esprime solo a gesti: il potere che ha creduto di esercitare lo trasformerà presto in vittima, in muta carne da macello. Così, mentre il corpo del fu dictator romano viene trascinato tra gli astanti a dividere l’opinione pubblica, la scritta “Mene, Tekel, Peres” (dal libro del profeta Daniele: Dio ha contato il tuo regno e gli ha posto fine/tu sei stato pesato sulle bilance e sei stato trovato insufficiente/ il tuo regno è stato diviso e dato ai Medi e ai Persiani) campeggia sul fianco di un maestoso cavallo nero fatto salire chissà-come al secondo piano del palazzo di via Alemagna. E per concludere ecco l’oratoria di un Marco Antonio afono: la parola che si fonda letteralmente sulla ferita – su quelle del corpo martoriato di Cesare, come su quella di Dalmazio Masini, poeta e interprete privato dalle corde vocali a causa di un’operazione alla laringe – risulta miracolosamente, una parola (con)vincente.

Castellucci non sembra affatto a disagio nel dover mettere mano alla fisionomia del suo lavoro. Tutt’altro. Tolto il peso di una struttura percepita ormai come superata (“fare a pezzi questo spettacolo non è stato doloroso, è stato semmai doloroso dover rifare l’Orestea a Parigi identica a come l’avevo fatta in passato”), eccolo concentrare tutta la potenza formale del suo rappresentare in 45’ di grande intensità. Un rito ateo, dove l’inganno teatrale e i suoi elementi (simbolici, concettuali, estetici, perfino teologici) diventano i ciottoli per una via sapienziale. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare dalla sua fama cerebrale e intimamente ideologica, lo scopo dell’arte drammatica (e drammaturgica) di Castellucci non sembra essere quello di celebrare la verità di un assoluto (sia esso un dio, un regista, un’estetica), bensì di portare dinamismo in ciò che, come una statua, era inerte e privo di vita.

(foto di Luca Del Pia) 

Giulio Cesare- Pezzi staccati di William Shakespeare, regia di Romeo Castellucci. Fino al 20 marzo al Crt-Teatro dell’Arte

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