Attualizzazione raffinata, scambio di doni, griffati e non, tra Egizi e Romani, carrellata di dive hollywoodiane. Robert Carsen per questo Händel scaligero mette in scena uno spettacolo ironico, volutamente artificioso con tanto di stacchi cinematografici. Direzione seduttiva di Giovanni Antonini
L’ultima volta che si è visto un Giulio Cesare alla Scala, lo recensì Eugenio Montale. Era il 1957, vale a dire sessantadue anni fa, e ancora si scriveva di una musica “che non si rassegna a se stessa”, “che vuole emulare poesia, pittura, architettura”. Merito di Pereira se in questo nuovo secolo, a Milano, si è ricominciato a parlare di Georg Friedrich Händel, tenuto conto che dopo Il trionfo del tempo e del disinganno e Tamerlano, siamo arrivati al terzo titolo in pochi anni, e che altri due, Agrippina e Ariodante, sono già annunciati per le prossime stagioni.
Diciamo subito che il Giulio Cesare di Händel è in Egitto, titolo da non sintetizzare: nessun “Tu quoque Brute” o “Ci rivedremo a Filippi”, ma una cadenza di intrighi politici e amorosi d’Oriente tra il “dictator” e Cleopatra all’incrocio di ben due guerre civili, una romana e una egizia. Al solito, tutti in balia di un vasto gioco dei potenti, presi a inseguirsi tra quarantaquattro numeri musicali con continue soste sui “da capo”: meravigliose sospensioni sull’orlo dell’estasi barocca, in cui i personaggi ricalibrano le loro dinamiche di affetti e si avviano verso l’aria successiva. Insomma, l’attesa non è stata vana, sia per l’opera in sé, che se non si fosse capito è un capolavoro, sia per il livello di questa produzione, che giustifica l’ovazione finale per i cantanti, per la direzione di Giovanni Antonini e per la regia di Robert Carsen.
Seguendo quest’ordine, la prima “maraviglia” della serata sono state le voci controtenorili di Bejun Mehta (Cesare), di Philippe Jaroussky (Sesto) e di Christophe Dumaux (Tolomeo), ognuno in corsa verso il cuore del personaggio con la straniante, cristallina agilità della propria tessitura, che non ha niente di astratto, ma può toccare punte di lirico patetismo (Jaroussky), di tremenda violenza (Dumaux) o di rapita contemplazione (Mehta): basta dire che il barocco in una sala grande non si può fare. Sara Mingardo è un’elegante Cornelia ripiegata nei suoi accenti dolorosi. Quanto alla vulcanica, bellissima Danielle de Niese, trionfatrice della serata, il magnetismo scenico della sua Cleopatra e la smaliziata conoscenza del personaggio zittiscono chiunque abbia qualcosa da dire sul gusto di alcune soluzioni.
La direzione di Antonini si smarca dall’insopportabile categoria del “ba-rock”, invocato quasi con gratitudine quando non ci si è annoiati dopo un’opera di inizio Settecento. Finalmente un direttore che ha incorporato un linguaggio fatto di meccanismi retorici diversi da quelli a cui siamo abituati, e che non li teme. Così come non teme di ammorbidire, di illanguidire, persino di sospendere il passo teatrale, raggiungendo momenti di vera seduzione, che si richiamano tra un numero e l’altro senza mescolarsi in una rassicurante uguaglianza.
Qualcosa del genere riesce a farlo anche Carsen, che sposta la vicenda nel solito contesto “desert storm” post-Peter Sellars. Ma il punto qui non è tanto l’attualizzazione, né la raffinata ironia che sparge per tutta l’opera, anche osando, come solo un grande regista sa fare: lo scambio di doni, griffati e non, tra Egizi e Romani; la carrellata di dive hollywoodiane che Cesare si gode nel suo cinema privato (Claudette Colbert, Vivien Leigh e Liz Taylor, mancano la Loren e Helen Gardner, la prima interprete della regina) ; Cleopatra come Blanche nella vasca schiumante, poi avvolta nuda in un lenzuolo bianco; lo scambio di barili di petrolio nel finale, con tanto di selfie dopo la firma dell’accordo.
Carsen imposta uno spettacolo volutamente artificioso, fatto non solo di teatro nel teatro ma di veri e propri stacchi cinematografici sui “da capo”, realizzati con sipari dipinti. Perché uno sviluppo musicale continuo, in quest’opera, semplicemente non c’è. Così, anche sul piano psicologico, i personaggi procedono per stratificazioni, per addizioni delle diverse situazioni emotive, accostate tra loro senza un preciso nesso di causa-effetto: è l’ascoltatore che caso mai forzerà il passaggio logico secondo le sue categorie, un po’ alla Hume. Carsen sembra cogliere questo spirito profondamente razionale ancora pre-illuministico e realizza uno spettacolo “moderno”, ma händeliano in tutto e per tutto.