Giulio Piscitelli, vincitore del World Report Award 2015, da quattro anni fotografa le migrazioni verso l’Europa: “Raccolgo le storie di chi non ha voce”
«L’arte ha il potere di rendere gli uomini capaci di emozionarsi. È questa la molla che li spinge a interrogarsi sulla realtà». Giulio Piscitelli, vincitore del World Report Award 2015, ne è convinto. Per questo, dal 2010, lavora al progetto From There to Here. Immigration in the time of Fortress Europe e con i suoi scatti testimonia la complessità e le geografie dei flussi migratori verso l’Europa. Fino al 26 ottobre le sue fotografie saranno esposte al Festival della Fotografia Etica di Lodi, dove l’abbiamo incontrato.
Nel 2011 ti sei imbarcato con i migranti partiti dalla Tunisia e diretti a Lampedusa. Cosa ricordi di quella prima traversata?
Nel 2011 sono arrivato in Sicilia per seguire la crisi umanitaria degli sbarchi a Lampedusa. Poco dopo sono partito per la Tunisia. Qui, per la prima volta, ho visto cosa succede dall’altra parte del Mediterraneo. Questo inedito punto di vista mi ha svelato un nuovo mondo e ha fatto nascere dentro di me la necessità di raccontarlo. Così, mi sono imbarcato con i migranti per documentare l’attraversamento del mare. All’inizio quelli che sarebbero diventati i miei compagni di viaggio non pensavano che sarei partito davvero. Poi, hanno capito che non mi sarei tirato indietro. Erano contenti che qualcuno volesse dar voce alle loro storie. In quelle ore terribili trascorse in balia del mare, si è creato un rapporto umano bellissimo. Condividere quell’esperienza mi ha fatto capire quanto sia difficile decidere di affrontare un viaggio del genere: chi accetta di correre un rischio così alto sa di non avere altra speranza. L’angoscia del mare è la peggiore, nulla al mondo fa così paura. Anche per questo la gioia dell’approdo è qualcosa di indescrivibile.
In che modo quel viaggio ha orientato il tuo lavoro?
Un’esperienza così forte ha scosso il mio orizzonte. Dove volessi arrivare non mi è stato chiaro da subito. Ho ripensato agli esordi della mia carriera come archivista a Napoli dove, attraverso le foto, avevo imparato a conoscere il fenomeno dell’immigrazione italiana. Ecco cosa volevo fare: creare una memoria che potesse prescindere e sopravvivere alla contingenza dell’attualità. Ci sono storie che non finiranno mai sulle prime pagine dei giornali ma che devono essere raccontate. Ho smesso di rincorrere la notizia per avviare un progetto più ampio che ha preso forma negli ultimi cinque anni. Ora, prima di concluderlo, vorrei partire per Calais, dove ogni giorno si consuma la fatica di chi prova a raggiungere il Regno Unito.
Cosa hai visto quando hai deciso di puntare il tuo obiettivo su ciò che succede prima degli sbarchi?
Le foto dei migranti che arrivano sulle coste europee sono quelle che vediamo ogni giorno sui giornali e in televisione. Quando ho avuto la possibilità di andare nell’Africa subsahariana, ho visto tutto quello che precede gli sbarchi. Ho scoperto una realtà fatta di rapimenti, stupri, di violazione dei diritti umani da parte della polizia di frontiera. Ho capito che lasciare la terra in cui sei nato ti porta a fronteggiare l’abisso. Le persone che ho incontrato nei campi profughi al confine tra Somalia e Kenia hanno una storia che spesso, tragicamente, si ripete. Ho fotografato uomini e donne che vivono in questi campi da anni e senza nessuna assistenza sanitaria. Una persona senza diritti è una persona senza voce.
Le immagini hanno davvero il potere di smuovere le coscienze?
La nostra è una società assuefatta alle immagini. Ciò che oggi ci sconvolge, domani sarà già stato dimenticato. Chissà quanti, tra qualche mese, ricorderanno ancora la foto del corpo senza vita di Aylan, il bimbo siriano morto tra le acque di Bodrum in seguito a un naufragio. Mi chiedo spesso, per esempio, se gli scatti che facciamo ai migranti non tolgano loro la dignità. È vero ma continuo a credere che sia necessario correre questo rischio: quelle immagini, proprio per la loro forza, possono far scoccare la scintilla della riflessione. Qualcuno, dopo aver visto i miei scatti, avrà voglia di approfondire e documentarsi.
C’è un limite etico per chi fa il tuo lavoro? Cosa è lecito fotografare e cosa no?
Chi fa il mio lavoro cerca il dramma. Lo faccio anche io. M’infastidisco, però, quando vedo alcuni miei colleghi comportarsi come se stessero fotografando animali allo zoo. A distanza, puntano i loro teleobiettivi per immortalare la debolezza di chi per loro è un estraneo. Io non mi pongo limiti, o almeno non lo faccio a priori. Parlo con le persone che fotografo, ascolto quello che hanno da dirmi e passo del tempo insieme a loro. Solo così posso acquisire il loro punto di vista sul mondo e raccontare la loro fragilità dall’interno, con rispetto naturale e sincero.
Immagine in apertura: Deserto del Sahara, frontiera libico-egiziana – 18 maggio 2014 – 85 profughi, provenienti dal Sudan e diretti in Libia, attraversano il Sahara affrontando un viaggio di oltre tre giorni senza acqua né viveri. Nella zona non ci sono Ong o gruppi umanitari che possano aiutare i migranti che arrivano quasi quotidianamente dal deserto, spesso feriti o in condizioni di salute precarie. Secondo le stime del sito Fortress Europe almeno 1.594 persone hanno perso la vita attraversando il Sahara negli ultimi dieci anni. Uno dei principali punti di partenza di questo percorso sono i mercati di Khartoum, capitale del Sudan. © Giulio Piscitelli/Contrasto
2)Mar Mediterraneo, Stretto di Sicilia – 2 aprile 2011 – Una barca con oltre 100 immigrati provenienti dalla Tunisia attraversa il canale di Sicilia per arrivare in Italia.. Il canale di Sicilia è da più di 20 anni uno dei principali punti di ingresso in Europa per i migranti che giungono dal Maghreb. Secondo alcune stime di Fortress Europe a partire dagli anni ’80 sono più di 10.000 i morti in questa parte del Mediterraneo. © Giulio Piscitelli/Contrasto