Abbandonato da Alma Mahler, Oskar Kokoshka non riesce a rinunciare ad averla davanti agli occhi; così si fa costruire una bambola con le sue fattezze a grandezza naturale: ossessione, malattia, disturbo, violenza. Il pittore de “La sposa del vento” agita il fantasma della propria passione attraverso il racconto di Hermine Moos: è lei il fulcro de “La bambolaia”, il nuovo romanzo di Giuseppina Manin pubblicato da La nave di Teseo.
«Hermine, rendimi Alma. Se quella vera non posso più averla, tu puoi ridarmi la sua immagine, evocare la sua bellezza. La copia, se nasce da un’arte come la tua, può sopperire all’originale, suscitare emozioni smarrite, lenire il lancinante vuoto dell’anima. Hermine, rifai Alma per me, costruisci il suo doppio, cuci le sue braccia, le sue gambe, punto su punto, rivestile delle stoffe più fini, modella il volto a sua immagine e somiglianza. Ridammi i suoi seni, il suo sesso, sempre aperto al mio desiderio. Il cuore no. Quello non lo voglio più. La lingua sì, non la sua parola. In cambio ti darò tutto quello che vuoi, venderò ogni mio quadro, farò di te l’autrice di un’opera unica al mondo. La più vicina possibile alla creazione divina».
Follia. Pura follia travolge il cuore e la mente di un artista giovane, geniale, votato a successi da scandalo, che un giorno del 1918 cade ai piedi di Hermine Moos, giovane pittrice, di professione bambolaia, commissionandole un miracolo che sa di perversione, per certo di illusione: poter stringere, accarezzare, baciare, possedere una copia “vera” dell’amante che l’ha lasciato.

Lo scenario è una Germania sconfitta: città in rovina, popolo prostrato, generazioni umiliate, ospedali pieni di giovani feriti dentro e mutilati fuori.
In questo mondo a pezzi, che cerca di rialzarsi e già cova la vendetta che finirà in catastrofe, fioriscono piccole passioni: piacciono molto le bambole. I negozi ne sono pieni, forse per rimuovere l’orrore dei corpi dilaniati.
Oskar Kokoschka – lui è l’artista geniale, l’uomo sballato – ha un’ossessione: rigenerare o almeno curare un amore ferito con un surrogato del corpo perduto. Alma Mahler, da poco vedova del direttore/compositore, tra un po’ signora Gropius, poi Werfel, oggetto del desiderio di tutta Vienna, che si nega a pochi o a nessuno, ha lasciato l’uomo dalle quattro K dopo tre anni di “relazione molto appassionata”, scriverà lui nel suo diario. E Oskar non lo sopporta. Nessuna può sostituirla, anche se i ripieghi non gli mancano, anzi. Per il pittore che vive di immagine e immaginazione non è innaturale sostituire una donna, la “sua” donna, con un feticcio (ha il pudore di chiamarlo col suo nome).

Da quella pulsione carica di simbolismi malati nasce la storia che Giuseppina Manin racconta nel suo La Bambolaia (La nave di Teseo, 171 pagine), libro che non poteva non avere la forma e i colori del romanzo, sulla scia di un altro suo racconto “storico”, Complice la notte, nel quale da un risvolto oscuro del passato emergeva la figura di un’altra donna, la pianista Maria Judina, artista orgogliosa, capace di opporsi a Stalin, che la venerava come musicista, senza restarne vittima.

Di quel rapporto ben dentro i confini del morboso tra Kokoschka e la bambolaia sono rimaste le lettere di Oskar. Nessuna invece di Hermina, sua quasi coetanea, che pure deve averne scritte molte, perché lui stava a Dresda, dove insegnava, e lei a Monaco di Baviera. Diversi gli incontri, soprattutto a casa di lui – quattro ore di panche di legno su treni gelidi -, ma lo scambio di informazioni avveniva su carta, con i disegni dettagliati di Alma per i quali il committente era ben attrezzato e le foto Kodak della bambolaia come aggiornamento sui progressi.
La realtà della storia è in quelle lettere di Kokoschka, mentre la “verità” di Hermine è nella narrazione di Giuseppina Manin, che sa mettersi nel cuore e nell’anima della ragazza immaginandone prima lo stupore, la sorpresa, poi i dubbi, le ansie, le disperazioni e infine il probabile, forse doppio innamoramento, un po’ per Oskar e molto per lei, la bambola, la creatura nata in nove mesi (!), la copia di Alma, donna reale eppure sconosciuta (almeno a lei).
Il motore del romanzo è nell’invenzione di Hermine, ricreata con l’istinto di donna e la sensibilità della scrittrice. Il titolo dice giusto: la bambolaia è la vera protagonista, l’elemento vivo di un intreccio di passioni nel quale è ancora e sempre l’uomo a mostrare il volto più insano e possessivo. A condurci pagina per pagina è Hermine, il personaggio reinventato e reinventabile perché umano. Kokoschka no.
Nel libro non c’è neanche Alma. La donna circondata dalla fama di essere la più bella di Vienna, sicuramente la più desiderata e accoppiata – solo ad artisti: il pittore Gustav Klimt, il musicista Mahler, l’architetto Gropius, lo scrittore Werfel e molti altri, pare -, non ha parole né volto (a parte lo scorcio delle labbra in copertina). Che cosa pensava Alma della propria replica? Ne fu prima lusingata e poi irritata, quando seppe di essere stata disegnata (da Kokoschka) e percepita (da Hermine) molto in carne e un po’ vecchia (nel 1918 aveva quasi quarant’anni).
Un terzo personaggio, Gerhard Pagel, entra nel racconto, soprattutto in appoggio della figura tormentata di Hermine Moss, di famiglia ebrea, e non per caso è un medico, negli anni in cui ha messo radici il pensiero di Freud, sul cui lettino si era sdraiato anche Mahler, non poco a causa di Alma. Sono gli anni tra non molto segnati dalla pubblicazione del saggio autobiografico di un piccolo pittore austriaco, che nel libro si affaccia coi suoi baffi.
Piacque la bambola a Kokoschka? Ne fu soddisfatto? Ebbe gli effetti attesi? Scopritelo leggendo. La bambolaia sollecita una riflessione più profonda: il feticcio color carne, in seta fine, con capelli veri, attributi scoperti, somiglia al Corpo che il web regala in un clic alle incertezze, alle paure, all’ignoranza dell’Amore che attraversano la vita di oggi. L’escamotage di Kokoschka, perverso in senso etimologico e anche clinico, anticipa una risposta che sembra diversa solo perché immateriale.
Coincidenza. Anche grazie al Premio Bagutta, in questi giorni deflagra nella realtà editoriale (quasi quarantamila copie vendute) un libro di Vittorio Lingiardi, Corpo, umano, che nell’indagare il nostro involucro di carne offre una miniera di riflessioni su quel “tutt’uno con la psiche” di cui parla anche La bambolaia. Nel viaggio che Lingiardi compie dentro il nostro corpo troviamo una chiave interessante, non sua ma che conosciamo grazie a lui, per definire la perversione: il gesto che nel rapporto d’amore insinua un elemento “terzo”. Uomo, donna, oggetto, stato mentale? Magari una bambola.
