Teatro di ragione e filosofia che interroga l’oggi quello degli Anagoor che, per una sola sera il 20 luglio all’Arsenale di Venezia, mettono in scena la loro ‘Orestea’ premiata con il Leone d’Argento. La sanguinosa saga degli Atridi è al centro di una ricognizione anche visiva dei luoghi della trilogia e sfondo di una meditazione sul cambiamento e sulla pratica della giustizia eternamente urgente
L’atteso avvenimento inaugurale della Biennale teatro 2018 diretta da Antonio Latella sarà la nuova Orestea che da molti mesi sta preparando il pregiatissimo gruppo degli Anagoor, nato nel profondo Nord Est e giunto a una svolta, consacrazione internazionale della propria carriera. Il loro spettacolo, a Venezia solo per una recita (il 20 alle 17.30 teatro delle Tese dell’Arsenale, il 21 invece uno Spettri di Ibsen come non l’avete mai visto) sarà poi in giro per l’Italia e per il mondo con una tappa iniziale a Parigi, anche perché la produzione si avvale di un ricco bando Hermès oltre che del sostegno di teatri italiani e ovviamente della Biennale stessa.
Nello stesso giorno, alle 12, saranno consegnati i Leoni del teatro. Premiati con Leone d’oro la strana coppia Rezza Mastrella, quello d’argento va agli Anagoor di Simone Derai, compagnia ben nota agli appassionati anche per la loro non comune passione per la cultura classica. Nel curriculum infatti Virgilio brucia con Marco Menegoni che recitava tutto un canto dell’Eneide in latino e, sui banchi di scuola, Socrate il sopravvissuto che indagava il difficile rapporto tra discepoli e insegnante, tra la conoscenza e il conosciuto. A chi coltiva questo genere di teatro di ragione e filosofia proiettati verso l’oggi, intrisi di una contemporaneità espressiva davvero notevole, non poteva sfuggire l’interesse per la famiglia più bieca e nota della storia del mondo, altro che i boss della mafia. È quella degli Atridi che lo stesso Latella ha raccontato in 8 episodi con un gruppo di giovani attori in uno spettacolo monstre capolavoro di 19 ore, Santa Estasi.
Qui, accorciando di molto i tempi, siamo sempre nella saga della violenta prole di Atreo: si inizia col pasto dei figli e poi via via si prosegue, mescolando uomini e Dei, volontà e rassegnazione, rancore e rimorso, vendetta soprattutto lungo le ire di Agamennone e Menelao e di Elena e Paride e la guerra di Troia e Oreste che amleticamente (riferimenti scespiriani non sono casuali) uccide la madre rea di adulterio di famiglia. Il furore dei tempi, siamo tutti innocenti e tutti colpevoli nel mezzo della storia del mondo e l’eternità è la cosa più difficile da esprimere a teatro che per sua natura vive una sera. Eppure gli Anagoor di questo concetto hanno fatto un manifesto poetico con l’entusiasmo di Simone Derai, regista, attore, manager del gruppo che si avvale di molti giovani ed anche di ragazzi appena usciti dal liceo, quindi freschi di studi classici. Eternità vuol dire parlare di ieri per rivolgersi all’oggi.
La prova definitiva è una Orestea in cui Derai non vuole crogiolarsi nel sangue versato, ma ha compiuto una vera documentazione visiva ed emotiva girando i luoghi sacri dell’azione, addirittura spingendosi nei meandri del sottosuolo greco, ingombro di memoria. Dunque la violenza di ieri si specchia negli anni nostri, col senso di vuoto ben noto, i messaggi nella bottiglia lanciati dalla crisi del mondo moderno dal baratro in cui sono caduti, Dostoevskji, Kafka, Camus e tanti altri. Ma noi partiamo da Eschilo, siamo nel 458 a.c. ., giorno più giorno meno, 2476 anni fa, con la trilogia Agamennone, Coefore, Eumenidi su cui Derai ha lavorato con Patrizia Vercesi (come dramaturga) e tutto il gruppo, mai così coeso e con un sospiro comune. Un progetto quasi kolossal, nel senso migliore e non hollywoodiano ma ateniese del termine, per far giungere a destinazione quel concetto di Eternità di cui si diceva e che non è sfuggito alla giuria veneziana che ha premiato: “Anagoor non è mai popolare nella scelta dei testi, eppure lo è, nobilmente, nella restituzione artistica…”. Verissimo.
La distanza tra eroi e vittime di ieri e quelli di oggi, sprovvisti della dimensione del sacro, è incommensurabile ma gli Anagoor riducono le distanze con il grande mestiere artigianale di un teatro passato attraverso le lezioni di Strehler e Ronconi, Kantor e Latella, Wilson e Brook: “Orestea – dice Derai – è una meditazione sul valore del cambiamento e sulla pratica della giustizia, sul male e la fragilità del bene. Eschilo è un anello di congiunzione tra mito, festa ed esercizio del pensiero. I Greci hanno inventato l’idea che l’essere finisca nel niente, sprofondando per sempre l’Occidente nel dolore”. Eschilo per Derai e i suoi complici “è riuscito a intravedere le derive di questa aurora buia, è il primo della nostra storia a dire un no assoluto a questo dolore”. Eschilo è il titano che con muove guerra alla montagna olimpica, ma è anche il dio sorridente che stende la palma della mano come argine al caos: il dramma è la rivelazione del vuoto del mondo.
L’Orestea attesa a Venezia, di cui si parla un gran bene nell’ambiente, tenta di far quadrare i conti con questa voglia di sopravvivenza che appartiene al classicismo. E tutto ciò sarebbe solo una enunciazione di principio senza la forza poetica e l’invenzione, l’illusione teatrale di una compagnia giovane e fornita di passioni, che sa usare ogni mezzo per emozionarci: qui una nevicata di lana grezza indicherà la ritrovata opulenza del Palazzo, con la maiuscola pasoliniana. Il teatro è una delle cure omeopatiche per tentar di risorgere dal caos. Derai, Menegoni e tutti gli altri, under 30, non si sono limitati a ragionare da studenti del classico ma hanno toccato con mano, visto i musei, trasmesso la statua di Apollo in modo tridimensionale, scendendo perfino nelle viscere della terra a sentire gli echi paranormali del passato (come fece Fellini in Roma). La storia è quella: sangue, sangue, sangue, femminicidio e mascolicidio. Elena scappa con Paride, Agamennone sacrifica la figlia Ifigenia, il trono di Argo edificato sui cadaveri, plot ideale di una tragedia generazionale che oggi sarebbe una serie meravigliosa, come quella che stanno tentando di fare con le tragedie dei re scespiriani: “Un padre uccide la figlia, una sposa uccide lo sposo e un figlio, Oreste, è tenuto dall’imposizione di un oracolo, a uccidere la madre. L’Occidente poggia sulla frana di una casa. Un precipizio che per essere arrestato richiede una sospensione straordinaria, un enorme sforzo di civiltà, un atto divino: il culmine del pensiero è il vertice a cui aggrapparsi nel vortice della follia”.
Ogni riferimento è puramente casuale? “Orestea – dicono gli Anagoor – è la storia di un mondo in rivolta, un atto desiderato sentito come necessario e praticato con inaudita violenza, ma capace nella cecità della sua furia, di preparare le condizioni per la rigenerazione del vecchio”.
Immagine di copertina di Andrea Pizzalis