Nel secondo film della francese Marie Amachoukeli-Barsacq la delicata, amorevole relazione tra una bimba di sei anni, orfana della mamma, e la tata Gloria, che decide di tornare in patria dai figli suoi. Capo Verde, dove Cléo la raggiungerà nell’estate successiva, offrirà alla bimba un’immagine tutt’altro che tranquilla, turistica, tra miseria, ingiustizie e la realtà “inevitabile” dell’emigrazione. Al centro dello schermo c’è sempre Cléo, la sua risata contagiosa, lo sguardo curioso: ma siamo ben lontani da una favoletta sull’incanto dell’infanzia, perché il film è preciso, arguto, tagliente, capace di colpire
Cléo ha sei anni, tanta energia e un disperato bisogno di amore. La giovanissima protagonista di L’estate di Cléo ha perduto la mamma e vive con un padre amorevole ma distratto dal lavoro; finisce così col passare gran parte delle sue giornate con la tata, Gloria, con cui ha stabilito un rapporto fortissimo, praticamente simbiotico. Un equilibrio che si spezza nel momento in cui Gloria prende la faticosa decisione di tornare a casa, nell’arcipelago di Capo Verde, non per una semplice vacanza ma per sempre. I suoi (veri) figli hanno bisogno di lei e la scelta è obbligata, ma per la piccola Cléo si tratta di un cambiamento a dir poco traumatico. Per cercare di attenuare il dolore del distacco, Gloria le promette che si rivedranno presto. E così l’estate successiva Cléo vola a Capo Verde – tutta sola, anche se ovviamente col permesso di suo padre – guidata dalla speranza di ritrovare l’amatissima tata, l’unica figura materna che abbia mai conosciuto.
In realtà troverà una situazione complicata, inedita e difficile da decifrare, per il suo sguardo ingenuo e bisognoso di un amore assoluto. La figlia più grande di Gloria ha vent’anni e sta per avere un bambino, il figlio più piccolo è un adolescente rabbioso, incapace di perdonare sua madre per il fatto di averlo abbandonato per andare a lavorare in Francia. Tutt’intorno c’è un mondo lontanissimo dall’immagine radiosa dell’arcipelago di Capo Verde come paradiso dei turisti, una realtà che ci appare prima di tutto intrisa di fatica quotidiana, con all’orizzonte un pressocché inevitabile destino di emigrazione.
La regista francese Marie Amachoukeli (al suo secondo film, dopo il toccante Party Girl, firmato insieme a Claire Burger e Samuel Theis) rielabora i suoi ricordi d’infanzia in una piccola storia di abbandono e cambiamento, di crescita e scoperta raccontata con sguardo sensibile e sincero, tenendo in gran parte la macchina da presa ad altezza di bambina, ma riuscendo anche a far emergere lo sfondo globale su cui tale vicenda si staglia. La storia di Cléo e Gloria assume così un valore ben più ampio, universale, capace di raccontare il mondo e i rapporti di potere che da sempre lo governano.
Al centro dello schermo c’è però sempre Cléo, la sua risata contagiosa e il suo sguardo curioso, le piccole mani tenaci che non si lasciano scoraggiare da niente e da nessuno, e sono pronte ad afferrare il mondo e a conquistarlo. Una bambina intrepida che nel corso di una lunga, e però fin troppo breve estate, impara che non c’è un unico modo di guardare il mondo. Impara che non esistono solo gli occhiali che portiamo sul naso noi, ma anche quelli degli altri. E che lo sguardo degli altri è importante almeno quanto il nostro. Questo è il senso profondo della prima sequenza, quella in cui la piccola Cléo dall’oculista sperimenta diverse lenti per correggere la miopia e, con i suoi occhiali nuovi, vedere il mondo che la circonda in modo più nitido. Proprio quegli occhiali che in una delle ultime scene si toglierà, mettendoli da parte per tuffarsi giù da una scogliera, in un atto che sembra avventato ma non lo è.
Perché buttarsi, prendersi dei rischi chiudendo gli occhi un istante ora, per imparare a vedere meglio poi, è l’unico modo per crescere e scoprire poco a poco il proprio posto nel mondo. E cosa implica occupare un posto invece che un altro. È anche e soprattutto di questo che parla L’estate di Cléo, dell’immensa ingiustizia che regola i rapporti tra nord e sud del mondo, perfettamente rappresentata dal destino delle tante donne costrette a emigrare, abbandonando la propria famiglia e i propri figli, per venire a crescere i nostri, di figli. Perché il rapporto tra Gloria e la piccola Cléo è un rapporto affettivo fortissimo, certo, ma è anche e soprattutto uno scambio di tipo economico: il padre di Cléo paga Gloria per occuparsi della bambina, e Gloria usa quei soldi per garantire una vita migliore alla sua famiglia rimasta a Capo Verde.
Lungi dall’essere una mera favoletta rasserenante sull’incanto dell’infanzia, L’estate di Cléo è un film preciso, arguto, tagliente, capace di colpire pur evitando accuratamente di scivolare verso il melodramma. La morte, l’assenza (della madre di Cléo, del padre dei figli di Gloria) è già una realtà, e ciò che resta è la mancanza, con cui fare inevitabilmente i conti. Non per sentirsi banalmente in colpa, ma per imparare tutti quanti a guardare il mondo attraverso le lenti giuste. Insomma, per vedere meglio. Anche quello che non ci piace, o che forse preferiremmo ignorare.
L’estate di Cléo, di Marie Amachoukeli-Barsacq, con Louise Mauroy-Panzani, Ilca Moreno Zego, Abnara Gomes Varela, Fredy Gomes Tavares, Arnaud Rebotini, Domingos Borges Almeida